Athletic Bilbao, tra calcio e spirito identitario

Provate a immaginare solo per un attimo a come sarebbero le squadre di Serie A se potessero scegliere solamente calciatori nati nella regione di residenza del club. Giocatori esclusivamente lombardi nel Milan o nell’Inter, campani nel Napoli, siciliani nel Palermo, laziali nella Roma o nella Lazio e così via. Un gioco che ogni tanto viene proposto in qualche approfondimento giornalistico, giusto per vedere che effetto farebbe, o magari per capire quale parte dello Stivale fornisca più talenti al calcio nostrano. Si tratta però di semplici supposizioni utopistiche, non realizzabili. Nel calcio di oggi, cosmopolita e milionario, non avrebbe alcun senso privare le società del 99,9% dei nomi a disposizione sul calciomercato per dare priorità esclusiva a talenti locali, sarebbe controproducente per loro, anacronistico rispetto ai tempi e sotto un certo punto di vista anche discriminatorio. Eppure, a poco più di un migliaio di chilometri più a Ovest da noi, nel bel mezzo della Spagna settentrionale, c’è chi questo ideale riesce a portarlo avanti ad alti livelli da qualcosa come centoventiquattro anni. Si parla ovviamente dell’Athletic Club de Bilbao, molto più di una “semplice” squadra di calcio. Un’entità capace di associare il forte spirito identitario a una competitività che le ha consentito di vincere trofei – tra cui 8 volte la Liga, addirittura 23 la Copa del Rey e 3 la Supercoppa di Spagna – togliersi grandi soddisfazioni, scrivere pagine di storia e rimanere ancora oggi nell’élite dei soli tre club spagnoli (insieme al Real Madrid e il Barcellona) a non essere mai retrocessi dalla massima serie.

La fondazione e l’origine britannica

Un club fondato ufficialmente nel 1903, dall’unione di due diverse società entità calcistiche della zona. Il gioco del calcio all’epoca era stato infatti da poco introdotto nella città basca da due gruppi differenti: da una parte c’erano i lavoratori dei cantieri navali britannici arrivati nel più importante porto della regione basca con il loro pallone da “football” sottobraccio, dall’altro gli studenti locali di ritorno dagli studi nel Regno Unito, che nella loro valigia prima di rientrare avevano lasciato un po’ di spazio pure per la passione per quel nuovo gioco. Ai primi va ricondotta la fondazione del Bilbao Football Club, ai secondi quella dell’Athletic Club: due società diverse che decisero di unire le proprie forze appunto nel 1903. La scelta fu quella di mantenere la lettera “h” nella parola “Athletic”, per rivendicare le origini parzialmente britanniche (anche se durante il periodo franchista fu obbligato a modificare momentaneamente nello spagnolo “Atlético”), sottolineate tra l’altro anche dalle divise ufficiali.

Athletic Bilbao, tra calcio e spirito identitario

Sebbene il primo kit indossato in assoluto fosse una maglia bianca con calzoncini e calzettoni neri, nei primi anni di vita i completini vennero acquistati dal Blackburn Rovers (quindi divisa a due bande verticali bianche e blu). Poi però, nel 1910, a seguito di un viaggio nel Regno Unito, il giocatore e dirigente Juan Elorduy tornò indietro con quelle a strisce sottili biancorosse del Southampton.
Il motivo? Non riuscì a trovare quelle dei Rovers, così per non rientrare a mani vuote ripiegò sulla prima alternativa che gli capitò. Sta di fatto che da allora i colori dei Saints sono diventati anche quelli dei baschi.

La filosofia

Nel DNA, tuttavia, cominciò sin da subito a circolare una regola chiara: in quella squadra avrebbero potuto giocare esclusivamente calciatori baschi, di origini basche o formati nelle giovanili di un club basco, senza eccezioni, come viene scritto chiaramente oggi sul sito ufficiale del club, sotto la voce “filosofia”: “L’Athletic Club come istituzione, così come tutti i suoi tifosi, è caratterizzato dalla difesa di valori sempre meno frequenti nel calcio e nello sport del 21esimo secolo. L’orgoglio delle proprie origini, che si riflette nella sua massima espressione con la politica del vivaio, segna la differenza con qualsiasi altra filosofia o modo di intendere il calcio nel mondo. Athletic Club ha sede a Bilbao, provincia di Bizkaia (Paesi Baschi).
La nostra filosofia sportiva è governata dal principio che determina che i giocatori che sono stati formati nella cantera stessa e quelli formati nei club di Euskal Herria, che comprende le seguenti demarcazioni territoriali, possono giocare nei suoi ranghi: Bizkaia, Gipuzkoa, Araba, Nafarroa, Lapurdi, Zuberoa e Nafarroa Behera, oltre ovviamente ai giocatori nati in ognuno di essi”.

In realtà, però, tutto questo non vale esattamente dal primo giorno di fondazione, come era inevitabile che fosse considerando l’origine per metà britannica. Fino al 1911, infatti, almeno cinquanta calciatori stranieri ebbero il privilegio di vestire quella divisa (quasi tutti inglesi). Poi però il divieto imposto all’epoca dalla Federcalcio spagnola di schierare giocatori non spagnoli alla coppa nazionale, spinse tutti i club a fare a meno di loro e così l’ultimo non nato né cresciuto in Spagna o nei Paesi Baschi (lato francese compreso) ad aver indossato la maglia dell’Athletic fu l’inglese Martyn Veicht. Quando a partire dagli anni Venti tornò la possibilità di ricorrere all’estero per allestire le proprie squadre, a Bilbao (ma anche in molte altre società della Nazione iberica, va sottolineato) decisero di non farlo, anche se non ancora per via di un proprio codice filosofico universalmente riconosciuto.

Athletic Bilbao, tra calcio e spirito identitario

Semplicemente, non ce n’era bisogno, perché in quel momento la zona era piena di talenti locali, la maggior parte dei quali “Biscayans”. Intorno al 1926, invece, l’area di influenza cominciò gradualmente a espandersi, toccando anche le zone di Gipuzkoa, Alava, Navarra o Cantabria. Nel corso degli anni la tendenza rimase tale in modo naturale, fino a quando, nel 1958, il club vinse 2-0 al Santiago Bernabeu contro il Real Madrid (reti di Arieta e Mauri) quella che all’epoca si chiamava “Copa del Generalísimo” (oggi Copa del Rey) e l’allora presidente Enrique Guzmán esaltò l’origine autoctona della sua squadra con una frase rimasta nella storia e nell’orgoglio dei tifosi rojiblancos: “Con 11 aldeanos les hemos pasado por la piedra”. La traduzione è intuitiva: “Con 11 abitanti del villaggio, abbiamo superato lo scoglio”.

Le prime “deroghe”

È proprio a partire da quella frase, quindi, che si fa comunemente risalire l’inserimento di questa regola nel proprio statuto, sebbene fosse di fatto in vigore da prima, come conferma quanto accaduto ad esempio nell’anno precedente, con il rifiuto di tesserare il castigliano Chus Pereda, perché anche se cresciuto a Bilbao era nato a Burgos. Un’intransigenza che si attenuò nei decenni successivi, in particolare nel 1979 con l’arrivo di Teodoro Rastrojo, originario di Madrid, ma “adottato” già in tenera età dai Paesi Baschi. E soprattutto nel 1998, quando venne messo sotto contratto Santi Ezquerro, di Calahorra, nella comunità autonoma de La Rioja, che l’Osasuna (club di Pamplona, quindi nella Navarra) aveva inserito nel proprio settore giovanile all’età di 18 anni.

Ciò per l’Athletic significò aprire le proprie porte anche a calciatori di qualsiasi parte del mondo, a patto che fossero stati parte nella loro ascesa calcistica di un’accademia basca o navarrese. Due anni prima, invece, fu percorsa ancora un’altra strada, quella che condusse verso l’ingaggio di Bixente Lizarazu, nazionale francese nativo di Saint-Jean-de-Luz, comune nei Pirenei Atlantici considerato parte integrante del versante transalpino della Navarra. Nel 21esimo secolo arrivò il momento anche dei primi giocatori di colore a indossare in incontri ufficiali (prima infatti c’era stato Miguel Jones, che disputò però solo un’amichevole nel 1956) la maglia dell’Athletic, cioè Jonas Ramalho e Iñaki Williams: si tratta però solo di una curiosità e non certo di una deroga alla filosofia dei baschi, dato che entrambi sono nati nei Paesi Baschi. Situazione simile a quella di Kenan Kodro, nato e cresciuto a San Sebastian, mentre il “caso di Cristian Ganea” è equivalente a quello del passato che ha riguardato Rastrojo, solo che lui è nato in Romania invece di farlo in altre province spagnole. Qualche dubbio nei più puristi di Bilbao è nato invece in altre occasioni, come ad esempio quella legata a Fernando Llorente di La Rioja, nato a Pamplona solo per caso, ossia perché la sorella di sua madre lavorava come infermiera in un ospedale della Capitale della Navarra.

Athletic Bilbao, tra calcio e spirito identitario

Oppure Aymeric Laporte, che non è basco-francese come Bixente Lizarazu, ma fece innamorare uno scout dell’Athletic durante un torneo in Aquitania e fu ingaggiato comunque prendendo come pretesto le sue “ascendenze basche”. L’ultimo caso molto particolare riguarda la selezione femminile e nello specifico l’acquisto di Lucía García, un’asturiana nata a Barakaldo solamente perché l’ospedale Cruces era il più adatto per un parto complicato come quello di sua madre, in cui vennero alla luce quattro gemelli.

Altre curiosità

È opportuno sottolineare poi che la scelta di puntare solo su baschi (o comunque, con il passare del tempo, su tutti coloro che avessero un minimo legame con quei territori), per quanto fortemente nazionalista, paradossalmente non ha mai interferito con le carriere internazionali dei suoi giocatori, i quali hanno risposto sempre senza problemi alle convocazioni da parte della nazionale spagnola (o francese, come nel caso particolare di Bixente Lizarazu). Questo accade adesso, ma succedeva pure nel passato più intransigente, come dimostrò José Ángel Iribar, portiere e bandiera dell’Athletic degli anni Settanta, famoso per le sue idee politiche pro-separatiste dei territori baschi: lui addirittura indossò la fascia di capitano delle Furie rosse, vincitrice dell’Europeo nel 1964. Alla squadra di Bilbao, inoltre, risale anche un termine che oggi viene riconosciuto universalmente come sinonimo di “capocanonniere” del campionato spagnolo, ossia “Pichichi”.

Ecco, questi non era altro che Rafael Moreno Aranzadi, nato a Bilbao il 23 maggio 1892 e nipote del noto scrittore Miguel de Unamuno. Quel soprannome gli venne dato dal fratello Raimundo per via della sua bassa statura, senza immaginare che un giorno sarebbe diventato uno dei più citati nel mondo del calcio. Di Pichichi è stato anche il primo gol in campionato realizzato al leggendario Stadio San Mamés, conosciuto anche come “La Catedral”, inaugurato il 21 agosto 1913 contro il Racing de Irún.

Insomma, anche se con qualche deroga accettata nel corso degli anni, si parla di un club che ha fatto la storia del calcio spagnolo e non solo, un modello unico nel suo genere in tutto il mondo, capace di trasformare utopia in realtà.
Ecco perché l’Athletic Club o Athletic Bilbao non potrà mai essere considerato una “semplice” squadra.

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La libertà di Assange, fondatore di WikiLeaks, è l’unica arma che abbiamo per contrastare chi sta costruendo passo dopo passo la Terza guerra mondiale. Ad affrontare il tema è Alessandro Di Battista, collaboratore de il Millimetro e tra i massimi esperti dell’argomento, oltre a essere protagonista di un fortunato tour teatrale incentrato sul giornalista australiano. Greta Cristini analizza geopoliticamente le origini dell’attentato terroristico islamista in Russia e i possibili scenari. All’interno anche L’angolo del solipsista, Vita da Cronista, Line-up, Pop Corn, Un Podcast per capello e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Giacomo Ciarrapico, Andrea Pamparana, Alessandro De Dilectis, Simone Spoladori, Riccardo Cotumaccio e Cesare Paris. Si aggiunge inoltre Tutt’altra politica di Paolo Di Falco. Copertina a cura de “I Buoni Motivi”.

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