Federico Fellini, l’intervista mai pubblicata

Nel 1980 Federico Fellini è già Fellini. Non solo il visionario regista riminese adottato da Roma e dal mondo ma anche lo straordinario cantore di se stesso e della sua vita. Lo dicono i suoi film, tanto legati al territorio natio e non solo; i suoi personaggi, certo esagerati ma sempre veri; le sue storie, oniriche eppure legate alle più nascoste verità del suo vissuto. In quegli anni la sua carriera inizia a far scuola ed Einaudi gli propone di raccontarla in un libro, “Fare un film”, impreziosito dalla premessa di Italo Calvino. L’autore simbolo del Novecento italiano scrive del cinema come “forma di evasione primaria dell’inserimento nel mondo, una tappa indispensabile di ogni formazione”. Racconta, e commuove leggerlo oggi, “l’emozione speciale di scoprire (uscendo dalla sala, ndr) l’accorciarsi o l’allungarsi delle giornate: il senso del passare delle stagioni era all’uscita del cinema che mi raggiungeva”. Non ama i film italiani: “È giusto che incantino gli stranieri ma che lascino freddo me – scrive -. Quando cerco qualcosa di nuovo mi rifugio nelle produzioni americane […] ma il cinema di Fellini invade lo schermo, il buio della sala che rovescia il cono di luce”. Del cineasta sottolinea i punti in comune: “La sua vita mi tocca da vicino non solo perché come età ci separano pochi anni , e non solo perché veniamo entrambi da città di riviera, lui adriatica e io ligure, ma perché dietro tutta la miseria delle giornate al caffè, della passeggiata fino al molo, dell’amico che si traveste da donna e poi si sbronza e piange, riconosco una giovinezza insoddisfatta di spettatori cinematografici, d’una provincia che giudica se stessa in rapporto al cinema, nel confronto continuo con quell’altro mondo che è il cinema”. È stima pura tra due simboli di una borghesia intellettuale pronta a immergersi nella frammentata società italiana del dopoguerra e degli anni Settanta. Il libro, di circa duecento pagine, è dedicato all’attrice Giulietta Masina, sua musa e moglie. Affronta ogni aspetto della sua filmografia ed esistenza senza particolare attenzione ai capitoli, come fosse un diario segreto. Questo articolo cerca di riproporne i contenuti a mo’ di intervista.

Federico Fellini, l'intervista mai pubblicata

Maestro, partiamo dalla sua città: Rimini.

Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare. Lì la nostalgia si fa più limpida, specie il mare d’inverno, le creste bianche, il gran vento, come l’ho visto la prima volta. Un’altra casa nostra, cioè abitata da noi, era vicina alla stazione. Era una villetta col giardino davanti, la stessa delle prime amicizie. La casa di Via Clementini 9, invece, è quella del primo amore. A Gambettola, nell’entroterra romagnolo, andavo invece d’estate. La mattina si sentivano risatacce un gran brusio. Mia nonna distribuiva il caffellatte e s’informava di tutto. ‘Fra tre giorni arriva il garbini, annunciava con sicurezza infallibile. Ed era vero, è un vento che abbiamo in Romagna. Capriccioso, instabile, imprevedibile. Per tutti, meno che per lei.

Cosa faceva da bambino?

Costruivo dei burattini. Prima li disegnavo sul cartone, poi li ritagliavo, infine mettevo insieme le teste con la creta o con l’ovatta imbevuta di colla. Fabbricavo da me anche i colori schiacciando i mattoni e riducendoli in polvere. Amavo dormire, andare a letto era per me una festa allora. Non ho mai fatto capricci per restare sveglio la sera; tutto quello che dicevano i grandi esauriva presto ogni interesse per me. Avevo battezzato i quattro angoli del mio letto con i nomi dei quattro cinematografi della mia città: Fulgor, Opera Nazionale Balilla, Savoia e Sultano. Chiudevo gli occhi, aspettavo col fiato trattenuto e un po’ di batticuore fino a quando, di colpo, cominciava lo spettacolo.

E cosa voleva fare da grande?

Fino al liceo non mi sono mai posto il problema; non riuscivo a proiettarmi nel futuro. Pensavo alla professione come a una cosa che non si poteva evitare, come la messa alla domenica. Non ho mai detto: ‘da grande farò!’. Non mi sembrava che sarei diventato grande e in fondo non ho neanche sbagliato.

Le manca Rimini?
In un certo senso me la sono portata appresso. Vicino a Roma c’è un posto che è Rimini ed è Ostia. I viali deserti, gli alberoni che si muovevano a causa del vento: ho visto, al di là da una balaustra di cemento, come a Rimini, che c’era il mare. Un mare nero: che mi fece venire nostalgia di Rimini; e che era una scoperta gioiosa, segreta.

Ecco, Roma. Quando la sua prima volta?

Nel ’38 o ’39. Facevo il giornalista e il direttore del giornale, che era un sarto e teneva sempre degli aghi fra i denti quando parlava, voleva un’intervista con Osvaldo Valenti. Così quella mattina era la prima volta che entravo a Cinecittà. Fingevo gran disinvoltura ma in verità ero molto intimidito e sono rimasto sotto il sole a guardare a bocca aperta le torri, gli spalti, i cavalli, le torve palandrane, i cavalieri imbottiti di ferro e le eliche di aeroplani in funzione che sollevavano nuvoloni di polvere; richiami, grida, trilli di fischietto, il frastuono di enormi ruote in corsa, clangore di lance, spade… ma, al di sopra di tutta quella confusione, una voce potente, metallica, tuonava ordini che parevano verdetti: era lui, era il regista. Mi spaventai, pensavo allora di non essere tagliato per la regia.

Federico Fellini, l'intervista mai pubblicata

Ma come?

Sì…mi mancavano il gusto della sopraffazione tirannica, la coerenza, la pignoleria, la capacità di faticare e tante altre cose, ma soprattutto l’autorità. Tutte doti assenti nel mio temperamento.

Quando ha cambiato idea?

Quando ho girato l’Italia con Rossellini. Il viaggio di Paisà rappresentò per me la scoperta. Seguendolo mi parve improvvisamente chiaro che si poteva fare il cinema con la stessa libertà, la stessa leggerezza con cui si disegna e si scrive. Realizzare un film godendolo e soffrendolo ogni giorno, ora per ora, senza angosciarsi troppo per il risultato finale; lo stesso rapporto segreto, ansioso ed esaltante che uno ha con le proprie nevrosi. Rossellini cercava e inseguiva il suo film in mezzo alle strade, con i carri armati degli alleati che ci passavano a un metro dalla schiena. Ecco, da Rossellini mi pare di avere appreso la possibilità di camminare in equilibrio in mezzo alle condizioni più avverse e nello stesso tempo la capacità naturale di volgere a proprio vantaggio queste avversità tramutandole in valori emozionali, in un punto di vista.

Arriva quindi “Lo sceicco bianco”.

Le cose andarono stranamente. Ponti ne aveva acquistato i diritti e mi chiamò per la sceneggiatura insieme a Pinelli e più tardi Flaiano. Raccontammo la storia al regista, Antonioni, a cui però non piaceva troppo. Intervenne quindi un altro produttore, Mambronio, che ne rilevò il soggetto con l’intenzione di affidare la regia a Lattuada. Alla fine però la proposero a me. Così un giorno, senza quasi accorgermene, mi sono trovato in teatro per i primi provini e a guardare, attraverso il mirino della macchina da presa, la faccia attonita di Leopoldo Trieste. Il primo giorno di lavorazione fu un disastro, arrivai in ritardo dopo aver bucato sulla strada di Ostia e sbagliai le prime riprese in mare su un barcone. Non ricordavo la trama del film, non ricordavo nulla. Inquadrare una cosa che si muove in continuazione mi parve impossibile, non ci provai nemmeno. Tornati a riva non parlava nessuno, Sordi era un po’ mortificato per me. Poi è partito tutto e il resto lo sapete.

I Vitelloni?

All’inizio non voleva distribuirlo nessuno, andammo in giro a mendicare come disperati. Dopo vari tentativi trovammo una distribuzione che non voleva il titolo I vitelloni ma I vagabondi! con il punto esclamativo.Li convinsi ma alla fine non vollero il nome di Alberto Sordi sulla locandina: fa scappare la gente, dicevano, è antipatico, il pubblico non lo sopporta. Il film ebbe poi successe e successivamente tutti i produttori cercavano ossessivamente un nome che facesse intendere una variazione dell’originale: Le mucchette, I formiconi…

Ci racconta Anna Magnani?

Mi era simpatica, l’ammiravo, ma mi dava un po’ di soggezione con quell’aria fosca da regina degli zingari, le lunghe occhiate silenziose, scrutatrici, gli scoppi di risa rauche nei momenti più inattesi. Sembrava sempre risentita, annoiata, altera. E invece era una ragazzetta timida dietro quel cipiglio minaccioso, aggressivo, nascondeva un’ingenuità, un pudore selvatico, un entusiasmo da monella, e il sentimento caldo, pieno, di una vera donna, come vorresti incontrarne più spesso.

E Totò?

Si dice spesso sia stato utilizzato male nel cinema ma dubito avrebbe potuto essere meglio. Non poteva che fare Totò, come Pulcinella, che non poteva essere che Pulcinella. Il risultato di secoli di fame, miseria, malattie, il risultato perfetto di una lunghissima sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, una splendida stalattite, questo era Totò.

Lo ha mai incontrato?

Poche volte e mi affascinava, non credevo ai miei occhi quando lo vedevo da vicino. Ho avuto con lui anche una piacevolissima esperienza come regista, molti anni fa, moltissimi. Ho diretto il finale di Dov’è la libertà? di Rossellini. Roberto si era ammalato, mi pare, i produttori mi pregarono di concludere in qualche modo il film. Una sequenza minuscola, solo un paio di inquadrature. ‘Senta principe – gli dissi – potremmo fare così, lei viene avanti…’ e allora Totò mi ha guardato con quei dolcissimi occhi da rondone e mi dice: ‘Voi mi potete chiamare anche Antonio’. Era un’investitura; sia pure per pochi minuti ero diventato il suo regista.

Federico Fellini, l'intervista mai pubblicata

È stato anche il regista di sua moglie, Giulietta.

Con lei sono più nervoso, esigente che con gli altri. Vorrei facesse bene subito. Sono disposto a tollerare gli errori di tutti ma i suoi mi indispongono. In questo sono profondamente ingiusto. Il fatto è che Giulietta abita dentro di me assai prima degli altri attori: e mi sembra che non le sia consentito di sbagliare. Si tratta di un rapporto antico, fu alla radio: recitava le scenette che io scrivevo. Il rapporto di lavoro, insomma, è parallelo all’altro, è sempre stato così. Ma non credo di aver mai lavorato con Giulietta per fatti di necessità o di opportunità. La vita insieme, com’è logico, è fonte di osservazione continua. È un tipo d’attrice congeniale alle mie intenzioni, al mio gusto: il visto, l’atteggiamento, le espressioni, i toni.

Cosa pensa della psicanalisi?

Il mio è un interesse da dilettante, da pasticcione, con una golosità tesa a cogliere sollecitazioni positive. Ma so che può essere di grande aiuto a chi sta male. Ci sono forme nevrotiche che alterano talmente la dimensione della psiche da non lasciare neppure una memoria precisa quando se n’è fuori. È in questi casi che la terapia può venirti incontro, ma credo sia sempre la vita a ristarti fuori da guai.

Ha mai provato droghe?
Una volta l’Lsd 25, un farmaco usato degli americani che riproduce sul piano sintetico la sostanza di certi funghi allucinogeni. Non posso dire gran che di ciò che mi accadde, ho pochi ricordi. So che per far cessare l’effetto mi dovettero fare un’endovenosa calmante.

Cosa significa, infine, un film?

L’ho sempre sentito come un momento della vita, per me non c’è divisione tra la vita e il lavoro, il lavoro è una forma, un modo di vivere. Il teatro di posa buio, tutte le luci spente, ha una seduzione su me che tocca un lato molto oscuro. Sono convinto che il cinema non consente casualità. Il fatto è che il cinema si avvantaggia dell’ignoranza di chi va al cinema. Il mestiere di colui che pretende di materializzare ombre, forme, prospettive e luci, è fatto di rigore ed elasticità insieme. Devi essere intransigente, implacabile, ma anche morbido, attento a cogliere resistenze, diversità, errori magari, con uno spirito di vigile responsabilità. La vita è anche così. È infantile pretendere di attraversarla protetti in ogni momento da certezze immutabili. È anche per questo che finito un film, non lo voglio più rivedere.

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