Sono le quattro del pomeriggio di un 6 febbraio piuttosto faticoso: bisogna scattare immagini e fare interviste nel centro di Bakhmut, ascoltare chi ci abita ancora e capire perché non scappa nonostante ogni giorno sia peggiore di quello precedente. Solo entrare ed uscire dalla città è un delirio tra ghiaccio e bombardamenti che non risparmiano nessuna area che dobbiamo coprire. Rientrando in macchina il mio collega Andrea Sceresini trova finalmente linea con il telefono e guarda i messaggi ricevuti per poter organizzare il da farsi dei prossimi giorni: “Oh Alfredo, mi sa che siamo un po’ nei casini”, ridacchia nervosamente mentre io, guidando, tento solo di scrollarmi le brutte sensazioni di paura. Forse sto esagerando ad andare a Bakhmut così spesso, sono già un’ottantina di giorni che sono in Ucraina e la fatica si sente, ma lo ascolto.