Italia fuori dai mondiali, ma non meravigliamoci

Sorride Giampiero Ventura, sospira raffiche di sollievo e pensa che in fondo non sarà più l’unico bersaglio da colpire quando verranno ricordati i momenti horror del calcio italiano. Dopo cinque anni, una pandemia globale e una guerra più vicina del previsto, è finalmente in buona compagnia, anzi, buonissima. Lo ha raggiunto Roberto Mancini, campione d’Europa con la nazionale azzurra, vincitore di svariati scudetti sulla panchina dell’Inter e tecnico capace con il Manchester City di alzare al cielo una storica Premier League (dopo quarantaquattro anni), una FA Cup e una Community Shield in finale contro il Chelsea. Incredibile, sì, tutti trionfi che adesso rischiano di svanire all’improvviso, di passare in secondo piano, di rimanere incastrati in un percorso talmente deludente e impossibile da dimenticare. Niente Qatar, avanti la Macedonia del Nord, è bastato un destro dalla distanza di Trajkovsky a superare (come accade ormai di consueto) il milionario Donnarumma e ammutolire gli oltre 35mila spettatori dello stadio Renzo Barbera di Palermo.

La sintesi è questa, proprio come quattro anni fa con i quasi 75mila di San Siro, corsi e ricorsi storici che d’incanto si riaffacciano sulla nostra bella penisola pallonara: anche questa volta l’Italia è fuori da tutto. E non perché ha sbagliato una partita, toppato un incontro, oppure sottovalutato un qualsiasi avversario. No, l’Italia non farà parte delle trentadue squadre più forti del mondo perché da dodici anni a questa parte ha smesso di programmare e gettare le basi per il futuro. Volontariamente? Non lo sappiamo, forse sì, magari no. E allora l’Europeo della scorsa estate? Le vittorie contro Spagna e Inghilterra? Le domande sono lecite e dirette: tutto bellissimo, tutto meritato, il calcio è anche questo (esistono pure le eccezioni), ma quando si va avanti per inerzia i risultati non cambiano mai. Per la seconda volta consecutiva, e non era mai successo prima, non parteciperemo all’appuntamento degli appuntamenti, alla massima competizione calcistica per eccellenza. Stop, questi sono i fatti, adesso dobbiamo solo analizzarli. 

Corsi e ricorsi storici

Le statistiche non mentono, è complicato parlarne, ma alla fine ti sbattono sempre in faccia il problema. E qui, di problemi, ce ne sono a bizzeffe. Nascono dal Mondiale vinto in Germania contro la Francia nel 2006, è da quel momento che abbiamo smesso di crescere. Naturale, per carità, sarebbe servito però un ricambio generazionale, un aumento economico e produttivo dei settori giovanili, qualche riforma ad hoc per tornare protagonisti e non campare esclusivamente di rendita. Niente di tutto questo, dal 2010 i numeri sono imbarazzanti, ma anche i colpi di scena che hanno rovesciato totalmente alcuni finali già scritti. I rigori sbagliati da Jorginho rappresentano il massimo dell’imponderabile, quei fattori incontrollabili a cui nessuno può reagire. L’analisi dei singoli episodi dunque ci può portare fuori strada, per guardare bene questo disastro occorrerebbe analizzare lo scenario nel suo intero, senza escludere alcuni accorgimenti che avrebbero salvato la baracca.

La ragione principale riguarda il nostro sistema calcio, troppe volte, e per troppi anni, gestito da persone che di calcio sanno poco o nulla. Che magari, in vita loro, non hanno mai indossato un paio di scarpini o guardato per intero una partita. Ma questa è un’altra storia, grave e inaccettabile. Il capolavoro sportivo di Roberto Mancini, ottenuto durante l’ultimo Europeo, rimane e non è in discussione. Ci sono le eccezioni, è vero, a volte capitano, ma non può essere tutto frutto del caso. La fortuna esiste e quasi sempre sta dalla parte di chi se la cerca. Discorso banale, vero, ma reale. L’Italia non era la squadra più forte d’Europa a luglio, però ha vinto e si è presa tutti i complimenti di cui aveva bisogno. Adesso ha perso vergognosamente e per la seconda volta consecutiva non parteciperà ai mondiali. Tutto questo si spiega in alcuni punti: Mancini aveva convinto i suoi azzurri – qualche campione, molti buoni giocatori, alcuni giovani in rampa di lancio – che le ragioni dello stare assieme e del sostenersi l’un l’altro potevano contenere non soltanto educazione, ma anche ambizione. E ogni tessera del mosaico era andata al suo posto: l’11 luglio l’Italia gioca a Wembley la finale in casa della sua rivale, restando in piedi malgrado il gol a freddo subito e lasciandosi preferire già nei 90 minuti. Ci vuole un coraggio da leoni per uscire così dall’angolo, a Palermo – soltanto otto mesi dopo – ne sarebbe bastato dieci volte meno. Ma nessuno aveva capito che il risultato di luglio si spiegava anche col tempo di assemblaggio, e così la Lega non ha ritenuto necessario rinviare la 30esima giornata di serie A. E questo dopo aver rifiutato in estate di anticipare di una settimana l’inizio del campionato, come chiesto da Mancini per arrivare con una gamba già rodata al match con la Bulgaria: da quel pareggio è iniziata la corsa a handicap che si è conclusa con la frana di Palermo. Intendiamoci: i club perseguono quelli che ritengono essere i loro interessi, e non sono criticabili per questo. Sono criticabili per non aver capito che il bene comune – in questo caso la Nazionale – sarebbe andato anche a loro vantaggio: sono anni che importiamo stranieri vecchi e bolsi che non ci aiutano a superare il livello basic delle coppe.

L’Italia di Mancini serviva per alimentare la passione delle giovani generazioni – quelle che Andrea Agnelli teme sempre di perdere – in attesa di tempi migliori. L’Inter sta seguendo fino allo sfinimento il percorso legale per rimandare il più tardi possibile il recupero col Bologna, in modo da affrontarlo quando le sue motivazioni saranno bassissime. È legale, lo ripetiamo: ma la quantità di recuperi da calendarizzare (non c’è solo l’Inter, anche se con Barella e Bastoni è la fornitrice azzurra più rilevante) non ha certo aiutato la sospensione della giornata in questione. Come non ha aiutato l’ufficializzazione all’1 giugno di ItaliaArgentina, la “Finalissima” tra campioni d’Europa e del Sudamerica, e immaginate con quale entusiasmo verrà giocata. L’1 giugno sarebbe stata una data estrema ma utile per disputare la giornata sospesa; la Federcalcio avrebbe dovuto chiedere alla Fifa di fissare la gara con l’Argentina a playoff conclusi. Niente di tutto questo, ma ormai è andata.

Settori giovanili e stelle invecchiate

Non è più il tempo delle sette sorelle, siamo tutti, più o meno, d’accordo. È cambiato il calcio, il modo di viverlo, di seguirlo, soprattutto con l’arrivo delle televisioni che hanno monopolizzato l’intero movimento. Queste frasi (fatte) le abbiamo sentite e risentite, analizzate e giudicate, ma nessuno ha mai cercato una vera soluzione. Di tutto ciò chiaramente, a lungo andare, ne hanno risentito più componenti: tifosi, club, giocatori e da qualche anno anche la nazionale, da sempre e per sempre specchio limpido del nostro calcio. Se Zlatan Ibrahimovic, a quarant’anni suonati, viene considerato la stella della serie A, evidentemente c’è un problema: forte, fuoriclasse, tra i migliori in assoluto, ma non più di primo pelo, verso il tramonto e quindi a fine carriera. Non fraintendeteci: magari ad averceli calciatori come Ibra nel nostro campionato, ma non bisognerebbe trascurare quei talenti che dai vivai fanno sempre più fatica a emergere. O che spesso e volentieri vengono “bruciati” al primo passaggio sbagliato.

L’ultimo giocatore italiano esploso e valorizzato è Manuel Locatelli, passato dal Sassuolo alla Juventus per circa 38 milioni di euro. Poi il nulla: le big puntano tutto sugli stranieri, trascurando totalmente i giovani nati e cresciuti nei propri settori giovanili. Anche chi lotta per non retrocedere si comporta allo stesso modo, la Salernitana ne è l’esempio lampante: Fazio, Perotti e Verdi sono stati gli investimenti di gennaio, quasi cento anni in tre. Ma d’altronde, se vuoi provare a salvarti è così, avrai sicuramente qualche chance in più: vecchia mentalità che in Italia fa sempre scuola.

Avanti con Mancini

Giusto, visto che la sua unica colpa è quella di averci creduto da solo, di essere stato abbandonato da chi questo movimento avrebbe dovuto sostenerlo e alimentarlo. E per una volta, soltanto attraverso la passione. Alla fine la confermata è arrivata, sono serviti un po’ di giorni per smaltire la delusione e provare a ragionare, Gravina ha deciso che sarà ancora Roberto Mancini il tecnico della nazionale per i prossimi quattro anni: “Abbiamo parlato col presidente in questi giorni, siamo allineati su tutto. Fa piacere, poi ne riparleremo nei prossimi giorni. Mi sento di restare perché sono ancora a giovane: volevo vincere un Europeo e un Mondiale, quindi per il Mondiale devo aspettare un attimo. Mi piace questo lavoro e coi ragazzi voglio riorganizzare qualcosa di importante. A parte la delusione, il resto va avanti”. La sconfitta rimane dolorosa e difficile da dimenticare, la seconda esclusione consecutiva dai mondiali fa male e sembra del tutto assurda, eppure è successo di nuovo: “E’ inutile stare a trovare spiegazioni. Il nostro gruppo dovevamo vincerlo almeno con due punti di vantaggio sulla Svizzera. A Basilea la partita doveva finire 3-0, in Bulgaria doveva finire in goleada. La squadra ha sempre giocato: può essere stata più imprecisa ma questo è il calcio, le cose ci sono andate storte. E’ accaduto ciò che è accaduto, dobbiamo accettarlo”. Adesso è fondamentale ripartire costruendo dal basso, lavorando coi giovani, provando a coinvolgere in maniera più attiva anche i club. La nazionale dovrà essere al centro del calcio italiano (sì, un discorso simile lo avevamo già sentito), in parte questo entusiasmo era tornato per tutto il percorso che ci ha condotto alla vittoria degli Europei, ma è bastata una Macedonia qualsiasi a far crollare aspettative, speranze e sogni intercontinentali: “Inseriremo sicuramente ragazzi più giovani, sperando possano avere esperienze importanti nei loro club perché questo è fondamentale. Lavoreremo su questo e vedremo quale sarà la situazione generale”.

“Mi sento di restare perché sono ancora a giovane: volevo vincere un Europeo e un Mondiale, quindi per il Mondiale devo aspettare un attimo”

La sensazione è che si tratti di un sì a tempo determinato, Mancini vorrà valutare da vicino la situazione e capire se ci sarà l’aiuto da parte di tutti per contribuire alla crescita del suo progetto. Diversi club europei gli fanno la corte da troppo tempo, perdere altra strada non sarebbe semplice e nemmeno troppo utile per la sua carriera. Il cammino verso il prossimo mondiale infatti è ancora lungo e la delusione potrebbe portarlo a prendere scelte diverse. Alcune alternative ci sono, un c.t. “fatto in casa” per esempio: la più accreditata porta a Fabio Cannavaro, con Lippi d.t. come da antico progetto. Non è un tecnico federale, ma in pochi come lui (136 presenze e più di 13 anni di nazionale alle spalle) si identificano con l’azzurro e si sente pronto per una carriera diversa, dopo l’esperienza maturata in Cina. Se si puntasse invece su un tecnico esperto, un “padre della patria” che inizi a lavorare come aveva fatto Mancini sulle macerie di un fallimento, la suggestione potrebbe essere Ancelotti, se fosse disposto a considerare chiuso il suo rapporto con il Real e la panchina della nazionale come unica esperienza mancante al suo curriculum. Un tecnico “giochista” come Mancini, un educatore allo stesso tipo di calcio, per dare comunque continuità al lavoro iniziato quattro anni fa. E che comunque deve restare un patrimonio della nazionale, per non dover ricominciare proprio tutto da capo.

Bisognerà salutarsi con alcuni giocatori, cambierà per esempio il capitano, impossibile infatti che Chiellini possa andare avanti. Si ragionerà anche su Bonucci, che comunque inizierà il nuovo ciclo. Poi si cercherà di valutare la posizione di altri elementi, uno su tutti Insigne, che a giugno partirà per una nuova avventura in Canada, campionato modesto e con ritmi completamente diversi da quelli europei. Un punto interrogativo da non sottovalutare. Ma intanto ripartiamo e ricostruiamo. Per l’ennesima volta. Speriamo sia pure l’ultima.

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Il prigioniero del secolo

La libertà di Assange, fondatore di WikiLeaks, è l’unica arma che abbiamo per contrastare chi sta costruendo passo dopo passo la Terza guerra mondiale. Ad affrontare il tema è Alessandro Di Battista, collaboratore de il Millimetro e tra i massimi esperti dell’argomento, oltre a essere protagonista di un fortunato tour teatrale incentrato sul giornalista australiano. Greta Cristini analizza geopoliticamente le origini dell’attentato terroristico islamista in Russia e i possibili scenari. All’interno anche L’angolo del solipsista, Vita da Cronista, Line-up, Pop Corn, Un Podcast per capello e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Giacomo Ciarrapico, Andrea Pamparana, Alessandro De Dilectis, Simone Spoladori, Riccardo Cotumaccio e Cesare Paris. Si aggiunge inoltre Tutt’altra politica di Paolo Di Falco. Copertina a cura de “I Buoni Motivi”.

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