Netflix e i dilemmi morali del True Crime

Quasi contemporaneamente, nelle scorse settimane Netflix ha rilasciato due serie che – oltre a riscuotere grande successo – hanno fatto molto discutere per i dubbi etici e gli interrogativi morali che le hanno accompagnate. La prima è Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, un prodotto che nella sola settimana di debutto ha raggiunto 196 milioni di visualizzazioni; la seconda è una produzione italiana ed è Wanna. La prima racconta la vicenda del “mostro di Milwaukee”, un giovane uomo dall’aspetto piuttosto comune che, all’inizio degli anni ’90, si è reso protagonista di una catena incredibile di efferati delitti e atti di cannibalismo; la seconda racconta un tipo diverso di violenza, quella psicologica, sociale ed economica che Wanna Marchi e la figlia Stefania Nobile hanno portato avanti nei confronti di malcapitate vittime di truffe di varia natura. Anche se Wanna non tratta efferatezze fisiche e delitti crudeli, espone comunque una vicenda criminale e possiamo dire che entrambe fanno leva sui meccanismi tipici del true crime. Per quanto diverse in tutto, queste due produzioni hanno sollevato numerose polemiche che ruotano intorno a un interrogativo simile: ammesso che esista, qual è il modo giusto per raccontare vicende così, senza oltrepassare la soglia della pornografia del dolore? Il true crime di per sé è già un campo minato, questo è chiaro. Spettacolarizzare il dolore e indugiare nel compiacimento eccessivo sono i rischi concreti del genere, anche perché tutti, o quasi, siamo attratti profondamente da questo tipo di storie, per ragioni che sono state oggetto di indagini e di ricerche più o meno approfondite. Il true crime spopola ovunque, nel mondo della serialità televisiva come fra i podcast o nei libri. In questi testi si trovano ritratte le nostre paure più profonde, ma anche – almeno nei prodotti più sofisticati – prende forma il nostro lato oscuro, quella dimensione dell’indicibile che avvicina tutti noi alla violenza e alla morte, consentendoci, in qualche modo, di perimetrarla ed esorcizzarla. Questo succede con profondità nei podcast, ad esempio, dove l’assenza del codice visivo, unita alla suggestione esercitata dalla voce e dall’ambiente sonoro, ci spinge a visualizzare ciò che ascoltiamo attingendo le rappresentazioni dalle parti più oscure della nostra immaginazione, mettendoci a contatto con parti di noi che nemmeno ipotizzavamo di avere.

Entriamo nel dettaglio

Ci sono due termini tedeschi che sintetizzano bene la radice di questa duplice forma d’attrazione. Da un lato il freudiano Unheimlich, in italiano tradotto con “perturbante”, che è l’angoscia che nasce quando percepiamo una cosa che dovrebbe esserci familiare anche come estranea. Il secondo è Schadenfraude, che è il sollievo che deriva dall’incontrare sventure che non sono accadute a noi, ma ad altri. Sollievo che si manifesta non solo nei confronti delle vittime, ma anche dei carnefici, cioè quando realizziamo che ad avere compiuto atti violenti non siamo stati noi, ma qualcun altro. Quanto sia lecito sfruttare questi meccanismi è un problema rilevante, ma forse passa in secondo piano rispetto a un’altra questione: perché sfruttarli, a quale scopo, per far detonare quali interrogativi. Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è firmata da uno showrunner molto noto come Ryan Murphy, che si è già cimentato con il true crime con American Crime Story e con l’horror con American Horror Story. È un autore sempre più prolifico, anche se l’impressione è che negli ultimi tempi i suoi prodotti diventino via via sempre più furbi e meno sinceri. Ne è una prova anche The Watcher, altro true crime Netflix rilasciato proprio in questo periodo, che non decolla mai e si accontenta di un manierismo di alto livello, e ne è una prova anche Dahmer, che in più di una circostanza dà l’idea di essere frutto di un abile calcolo più che di una sincera ispirazione. E qui probabilmente, nella sua dimensione più “calcolata”, si annidano le questioni etiche.

Netflix e i dilemmi morali del True Crime

Nonostante tutto, un successo incredibile

La serie su Dahmer insiste molto su entrambe le categorie che ho citato sopra, Unheimlich e Schadenfraude, e il suo limite è che però non sembra ancorarsi ad altro. Esaspera proprio quei dettagli che maggiormente inquietano nella vicenda del mostro di Milwaukee, cioè l’apparente normalità del killer, la sua natura dimessa e comune, e l’empatia suscitata dalla sua infanzia traumatica e solitaria, ma non mette a fuoco mai che cosa realmente ci riguardi, oggi, di quella vicenda. La rappresentazione della banalità del male diventa talvolta banalizzazione. A questo, si aggiungono anche delle prassi produttive quantomeno indelicate. Per citare solo uno dei numerosi casi, Rita Isbell, la sorella di una delle vittime, Errol Lindsey, brutalmente assassinato nel 1991 all’età di 19 anni, ha raccontato alla rivista Insider di essere profondamente amareggiata perché Netflix ha creato un’operazione meramente commerciale a partire da questa tragedia, aggiungendo che il vero problema è non essere stata contattata per la serie. Giornalisti di The Age e The Sydney Morning Herald, due noti magazine australiani, in seguito alle polemiche che la serie ha suscitato nel loro paese, hanno chiesto al gigante dello streaming di confermare o negare se le famiglie siano state consultate per questo spettacolo o se verranno fatte donazioni, ma Netflix ha rifiutato di commentare.

Il caso Marchi

Diverso è, a mio modo di vedere, il caso di Wanna, che si innesta anche nel filone di successo delle docuserie, che su Netflix è già stato percorso felicemente da un altro prodotto italiano come Sanpa e soprattutto dal vero modello cui sembra guardare Wanna, cioè Tiger King. Qui le puntate sono soltanto quattro, nelle quali viene raccontata la vicenda criminale e giudiziaria della Marchi e della figlia Stefania, e le terribili truffe perpetrate ai danni di persone spesso disperate, ma l’aspetto più problematico e infiammabile è che l’intera vicenda è affidata al racconto delle dirette interessate, che non mostrano alcun segno di pentimento e anzi offrono il proprio radicale punto di vista sulla vicenda. Madre e figlia sembrano totalmente impermeabili al dolore che hanno causato, indifferenti alle ferite inferte, tanto che – a tratti – la loro intervista fiume potrebbe sembrare una sorta di amplificatore per il loro distorto punto di vista. Eppure, a differenza di Dahmer, Wanna ha il pregio della complessità. Cucendo insieme testimonianze diverse e materiali di provenienza differente, la docuserie non fornisce risposte rassicuranti né alibi, ma si limita a sollevare interrogativi, a inquadrare il ritratto di un’epoca, e suggerire i tratti morbosi di un rapporto madre-figlia problematico e inquietante.

Netflix e i dilemmi morali del True Crime

Lo sguardo non è mai indulgente verso la protagonista né tantomeno in qualche modo affascinato, ma rimane neutro ed entomologico. Anzi, in modo intelligente, la lente dell’autore Alessandro Garramone sembra poggiarsi non solo sulle due donne, ma anche sul contesto storico di un paese completamente inzuppato in una sorta di surrealtà televisiva, per poi diventare specchio e mostrare la nostra immagine riflessa. Cambiano i mezzi e gli strumenti, dal dispotismo televisivo si è passati a quello del web e dei suoi derivati, ma le nostre disperazioni e le nostre solitudini finiscono spesso per riversarsi in modo torrenziale in zone pericolose, popolate da squali e creatori di complotti, di cui la Marchi sembra essere un grossolano archetipo in termini di persuasione e assenza di scrupoli. Il collegamento con la contemporaneità e lo spessore delle questioni poste sembrano mettere Wanna al riparo dalle incrinature che affliggono Dahmer. La complessità del lavoro, inoltre, investe anche un altro aspetto della miniserie italiana, cioè la rappresentazione del legame tra la madre e la figlia, un legame simbiotico talmente eccessivo e inclassificabile da risultare un campionario di patologie diffuse, nella cui sproporzione è impossibile non riconoscere piccole schegge di qualche rapporto guasto che ci riguarda da vicino.

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Il prigioniero del secolo

La libertà di Assange, fondatore di WikiLeaks, è l’unica arma che abbiamo per contrastare chi sta costruendo passo dopo passo la Terza guerra mondiale. Ad affrontare il tema è Alessandro Di Battista, collaboratore de il Millimetro e tra i massimi esperti dell’argomento, oltre a essere protagonista di un fortunato tour teatrale incentrato sul giornalista australiano. Greta Cristini analizza geopoliticamente le origini dell’attentato terroristico islamista in Russia e i possibili scenari. All’interno anche L’angolo del solipsista, Vita da Cronista, Line-up, Pop Corn, Un Podcast per capello e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Giacomo Ciarrapico, Andrea Pamparana, Alessandro De Dilectis, Simone Spoladori, Riccardo Cotumaccio e Cesare Paris. Si aggiunge inoltre Tutt’altra politica di Paolo Di Falco. Copertina a cura de “I Buoni Motivi”.

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