Scacco matto al Re del Maine

Dopo aver analizzato la top ten, passiamo alle dieci peggiori trasposizioni sul grande e piccolo schermo del cantore dei più spaventosi incubi per intere generazioni di lettori. Stavolta la scelta è stata più ardua, in quanto gli adattamenti mediocri surclassano di gran lunga i film di serie A, dando vita ad un puzzle su celluloide raffazzonato, molto spesso stantio, molte altre men che mediocre. Ragion per cui le analisi che seguiranno non sono state redatte in punta di fioretto, ma con lo scopo – riuscito lo direte voi – di criticare con ironia quei film che, di certo, nessuno si sognerà mai di portare su un’isola deserta.

1) IT (id.), 1990, Tommy Lee Wallace

Inutile negarlo. Era impresa quasi impossibile adattare il più grande capolavoro della narrativa horror per il grande schermo o, come in questo caso, per la televisione. Inevitabilmente, semplicemente, qualcosa – moltissimo – si perde nella trasposizione dalla pagina scritta alla pellicola, soprattutto se in quel qualcosa risiede il cuore della poetica kinghiana, la sua visione del mondo e della vita, l’essenza stessa di un universo esistenziale. IT è la bibbia di tutti gli amanti della letteratura orrorifica, né più né meno. Chiunque lo abbia letto, lo ha ripreso più volte. Chiunque lo abbia amato, non ha potuto fare a meno di leggerlo ancora e ancora, di osservarlo, nel tempo, con occhi nuovi, forse più maturi, così come avviene con la fotografia di un amore che ha travalicato passato e presente, restando radicato nei ricordi.

Quindi non c’è da stupirsi se la miniserie diretta da Tommy Lee Wallace sia una disfatta senza appello, un’indiscussa Caporetto, una babelica catastrofe. Forse, per riuscire nel miracolo, dietro la macchina da presa avrebbe dovuto sedersi un visionario della Nuova Hollywood (magari il Coppola di Un sogno lungo un giorno) o un alfiere del New Horror (il Romero di Zombi) e non Tommy Lee Wallace che, comunque, dimostrò in passato di non essere un incapace, avendo diretto quella sghemba fiaba celtica che andò ad incastonarsi, come un dente putrefatto, nella catatonica serialità della saga halloweeniana (Halloween III – Il signore della morte). Ma Wallace, ahinoi, non è né CoppolaRomero, e il suo IT è la banale riduzione, la mediocre rilettura, la pessima messa in scena del romanzo che è stato capace di travalicare generazioni di lettori, di rappresentare con spavento sublime e tenerezza universale il mondo dell’adolescenza, la dolce ala della giovinezza, prima che essa faccia il suo ingresso nelle tenebre dell’età adulta. Il romanzo di King è l’American Graffiti della narrativa horror, la Spoon River di un mondo tenero e inquieto, crudele e meraviglioso, quello che investe la vita di ognuno fra i 12 e i 15 anni: quel lasso di tempo magico e infinito, incerto e contraddittorio, in cui avvertiamo, forse per la prima volta, tutta l’insostenibile, febbrile angoscia di quello che ci attenderà dietro l’angolo.E ad attendere dietro l’angolo i protagonisti di IT è un clown. Quel Pennywise dal volto bianco come il latte e dalle labbra rosse come il sangue, capace di assumere qualsiasi forma, di trasformarsi nelle ataviche paure di ognuno, di rappresentare un male assoluto, ancestrale, senza tempo né spazio.

Scacco matto al Re del Maine

E se il film merita una visione lo si deve proprio al Pennywise interpretato da Tim Curry, volto non nuovo a indossare maschere grottesche (The Rocky Horror Picture Show) o demoniche (Legend). I goffi movimenti, lo sguardo vacuo, la bocca spalancata su un urlo oltretombale, sono le sole ragioni che elevano IT dalla più infima mediocrità. Una mediocrità che trasuda dalla fotografia “slabbrata”, dalla cagneria degli interpreti, dagli FX inadeguati (si veda il ragno dell’epilogo che sembra uscire pari pari da un b-movie degli anni ‘50), da una sceneggiatura scritta sulla carta di un Bacio Perugina. A distanza di 27 anni Andy Muschietti proverà a cimentarsi nuovamente con il testo kinghiano, dividendo la storia in due film, andando a separare il “prima” dell’adolescenza dal “dopo” dell’età adulta. Una scelta azzeccata, affossata però un’idea di cinema che fa dell’effetto speciale fine a se stesso, della sterile magniloquenza dello jump scare e della pachidermica messa in scena dell’orrore il suo marchio di fabbrica. Un marchio “Hollywood Style” che ha trasformato la paura del vivere del romanzo in un Big Mac da cineplex.

2) Brivido (Maximum Overdrive), 1986, Stephen King

Zio Stephen ha un difetto macroscopico: non capisce nulla di cinema. Lo diciamo con simpatia, ma anche con cognizione di causa. D’altronde come non pensarlo se King ha sempre ammesso di detestare l’adattamento kubrickiano di Shining, affermando a chiare note di preferirgli quello diretto da Mick Garris per la tv? Misteri del creato…Ad ogni buon conto, stufo di veder trasposti i suoi romanzi in maniera inidonea alla sua idea autoriale, King passò dietro la MdP adattando Maximum Overdrive (in Italia tradotto in Brivido, chissà poi perché) nell’ormai lontano 1986. Mal gliene incolse…

Tratto dal breve racconto intitolato Camion, presente nella raccolta A volte ritornano, Brivido vede sbarellare la tecnologia USA, causa congiunzione della Terra con la coda di una cometa. I Bancomat si ribellano, i distributori di bibite si comportano come nella saga fantozziana, i veicoli iniziano ad impazzare per le strade senza conducente. Insomma, un bel circo Barnum, condito da morti a gogò e paurosi incidenti. Peccato che la trovata si esaurisca nei primi dieci minuti e il film arranchi per tutta la sua durata seguendo le sorti di un gruppo di survivor asserragliati in una stazione di servizio.

Scacco matto al Re del Maine

Sì, è vero, il gigantesco truck con il volto del Goblin è un’icona eighties mica da ridere, ma il film è di una noia mortale, senza guizzi, talmente lento che sembra durare una quaresima. E non basta la musica degli AC/DC a tutto volume, a svegliare lo spettatore dal torpore. Critiche molto tiepide, incassi modesti, fan delusi. Risultato? King non girerà mai più nulla.

3) Fenomeni paranormali incontrollabili (Firestarter), 1984, Mark L. Lester

Uscita fresca fresca dal successo planetario dell’E.T. spielberghiano, riecco sullo schermo Drew Barrymore, pacioccona bamboletta preadolescente, un attimo prima di finire nei meandri dell’abuso di droghe e alcol che la terranno lontana dal successo in sala almeno fino allo Scream di Craven. Qui è una bimbetta pirocinetica che deve vedersela con militari cattivoni che vogliono sfruttare i suoi poteri a fini militari.

Scacco matto al Re del Maine

Da un romanzo modesto di King, un adattamento piatto come un encefalogramma, malgrado esplosioni, agnizioni e sparatorie disseminate un po’ ovunque. Belle musiche dei Tangerine Dream, ma interpreti penosi, suspense inesistente e regia pedestre a firma di Mark Lester, autore di due delle pellicole più truzze della metà degli anni ’80, Classe 1984 e Commando.

4) Secret Window (id.), 2004, David Koepp

Blocco dello scrittore, invasion of privacy, sdoppiamenti di personalità, schizofrenia: tanti ingredienti bollono nel calderone preparato da King nel racconto Finestra segreta, giardino segreto, da cui è tratto Secret Window. Una novella forse poco originale, ma ben congegnata nella sua progressione drammatica. Non si può dire altrimenti del film, in cui un bolso Johnny Depp, scrittore in crisi, se la deve vedere con un inquietante John Turturro che lo accusa di aver copiato un suo romanzo. Quando dalle minacce si passerà ai cadaveri, Depp comincerà a sudare freddo. Che i due in realtà siano lo stessa persona lo capisce anche un bambino dopo nemmeno mezz’ora, e qui casca l’asino. A questo si aggiunga la peggiore performance di Depp, vestagliona di flanella e occhialetti da intellettuale, e la regia dilettantesca di Koepp (in passato grande sceneggiatore per Carlito’s Way di De Palma). Tirate le somme un bel pasticcio, noioso come una messa e pauroso come una puntata de L’Isola dei Famosi.

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5) A volte ritornano (Sometimes They Come Back), 1991, Tom McLoughlin

Un professore si ritrova a fare i conti con un branco di teppisti che spadroneggiano nel liceo dove insegna. Fino a qui niente di strano, se non fosse che sono tutti morti. E vogliono farla pagare all’insegnante che, anni prima, per difendersi dal loro bullismo, ne causò involontariamente la morte. Da un bel racconto di King, un TV movie monocorde, diretto dal regista di Venerdì 13 parte VI – Jason vive (ah, beh, ecco…). Tipico esempio di horror anni ’90, quando il genere si ripiegò su se stesso in un’involuzione senza fine, A volte ritornano… è una scialba rilettura delle tematiche kinghiane, esangue e mediocrissima. Con due seguiti, sempre straight to video, uno peggiore dell’altro.

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6) Cose preziose (Needful Things), 1993, Fraser C. Heston

Da uno dei più riusciti e misconosciuti romanzi di King, sorta di I peccatori di Peyton Place in versione satanica, un deludente rifacimento a firma del figlio di Charlton Heston. In una sonnolenta cittadina del Maine, tutta pettegolezzi e apple pie, l’apertura del negozio di antiquariato “Cose preziose” spariglia le carte in tavola. Vi si può trovare di tutto: introvabili figurine di baseball, cimeli appartenuti ad Elvis the Pelvis (in Memphis), addirittura schegge dell’Arca di Noè. Ma ogni articolo ha un prezzo molto salato da pagare. E chi lo vuole non dovrà solo mettere mano al portafogli. Tutto, ma proprio tutto, si perde dalla pagina allo schermo: l’avidità umana, la ferocia sottocutanea della provincia stelle e strisce, la violenza insita nell’individuo, la gelosia come motore ultimo di ogni azione. Un film terribilmente inutile e privo di appeal, banale e semplicistico sotto ogni punto di vista. Che peccato…

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7) Cell (id.), 2016, Todd Williams

Da uno dei romanzi più fiacchi di King, una pellicola mediocre e piatta come una telenovela. Riflessione scontata sul pericolo causato dall’uso spropositato della mobile phone, Cell si adagia sul più trito canovaccio da zombie-movie, dispiegando la sua visione apocalittica: un misterioso impulso colpisce i cellulari, facendo impazzire chi è all’apparecchio. Un manipolo di persone scampate alle radiazioni cercherà di vendere cara la pelle e tornare dalle rispettive famiglie, mentre il mondo si trasformerà in un campo di battaglia.

Uscito alla chetichella in Italia, Cell avrebbe avuto maggiori possibilità di successo se dietro la macchina da presa, come si vociferava inizialmente, si fosse seduto l’Eli Roth di Hostel. Ahinoi, il timone è andato invece nelle mani di Tod Williams, di cui si ricorda solo lo scialbo Paranormal Activity II, quindi non proprio una garanzia di spaventi.

Scacco matto al Re del Maine

Risultato: un’interminabile peregrinazione dei protagonisti attraverso una landa selvaggia e inospitale, ripetuti attacchi delle orde dei “cellularizzati”, un trionfo di stereotipi e situazioni straviste. Tra gli interpreti si salva solo Samuel Jackson che saprebbe recitare anche la ricetta di una quattro formaggi, mentre John Cusack, fucile in spalle e sguardo imbronciato, ha l’espressività di una melanzana.

8) La creatura del cimitero (Graveyard Shift), 1990, Ralph S. Singleton

Graveyard Shift, ovvero Turno al cimitero. Da un racconto “politico” dello zio, in cui un’azienda tessile di prossima riapertura chiama a ripulirne gli scantinati una manipolo di persone senza lavoro e senza fissa dimora, sottopagandole e sfruttandole. Ma nei cunicoli maleodoranti del sottosuolo si aggira qualcosa di molto più pericoloso di topi baffuti.

Scacco matto al Re del Maine

Un horror estivo, veloce e senza fronzoli, ma pauperistico nella messa in scena e pietoso negli effetti speciali, tutto incentrato sul classico gioco del gatto col topo, e sul body count finale. Regia pedestre, interpreti legnosi, svolgimento ridotto all’osso. Innocuo e soporifero, lo si vede e lo si dimentica in un nanosecondo.

9) The Mangler – La macchina infernale (The Mangler), 1995, Tobe Hooper

Tratto dal racconto “Il compressore”, in cui si narra la storia di un mangano di una lavanderia industriale che, posseduto da un’entità demoniaca, esige il suo bel tributo di sangue operaio. Immerso in un’atmosfera dickensiana, che ricorda la Londra industriale dei primi dell’Ottocento, il film di Hooper parte bene e fa del raccapriccio e dello splatter la sua arma vincente. Poi, minuto dopo minuto, perde smalto, si avvita su se stesso, e si impantana nelle secche di una trama asfittica e ripetitiva. Senza contare l’interpretazione di Robert Englund tutta smorfie, occhiatacce e grugniti, simil Freddy Krueger, che trascina la pellicola nel ridicolo involontario. Stroncato unanimemente dalla critica, dà il colpo finale alla carriera di Hooper, passato nel giro di un ventennio da esponente di spicco dell’horror rurale seventies a deludente shooter di produzioni scalcinate.

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10) Lo sguardo di Satana – Carrie (Carrie), 2016, Kimberly Peirce

Se c’è una cosa veramente non riuscita in questo (necessario?) remake del cult depalmiano, è stata quella di affidare il ruolo della protagonista a Chloë Grace Moretz, ovvero delle prove inconfutabili dell’esistenza di Dio sulla terra, bomba talmente sexy da essere lontana galassie dalla goffaggine da brutto anatroccolo incarnata da Sissy Spacek circa quarant’anni prima. Una vera e propria scelta di miscasting che rema controcorrente alla riuscita del film dall’inizio alla fine, facendo crollare le basi fondanti per le quali era stato edificato: provare pietà nei confronti di una ragazza che, per l’aspetto fisico e la non integrazione nelle rigide griglie socioculturali delle high school, viene sottoposta a reiterati episodi di bullismo e sadismo. Dotata di poteri telecinetici, Carrie ne subirà di ogni, prima di mettere in atto la sua personale vendetta contro un mondo capace solo di deriderla e contro una madre bigotta e zeppa di manie religiose, che vede in lei il segno inequivocabile del peccato.

Scacco matto al Re del Maine

Aggiornato alla nostra era, in cui i social sono il principale veicolo con cui massacrare i difetti altrui, ampliandone disagio e non accettazione, questo Carrie 2.0 ha dalla sua buoni effetti speciali, l’intensa interpretazione di Julianne Moore, e una discreta progressione drammatica. E la scelta di far dirigere ad una donna (la Kimberly Peirce di Boys Dont’ Cry) una storia tutta al femminile non si è dimostrata sbagliata. Ma, repetita juvant, vedere la Moretz non trovare nessuno accompagnatore al ballo di fine anno, quando in realtà ci sarebbe una fila lunga un chilometro di adolescenti allupati davanti la sua porta, oltre che illogico, è tremendamente stupido. E la stupidità al cinema non paga mai.

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