Australia, il referendum che dimentica la storia

Il rispetto di 65.000 anni di storia. C’era questo, in fondo, alla base del referendum che si è tenuto in Australia il 14 ottobre. La popolazione attuale, quella trapiantata forzatamente da colonizzazioni britanniche brutali a partire dal 1700, è stata chiamata a decidere – attraverso l’emblema dell’istituto democratico, il primo a sfondo “costituzionale” degli ultimi 24 anni – se fosse il caso di riconoscere o meno dei diritti a coloro a cui hanno tolto il territorio, che oggi rappresentano il 3,8% dei 26 milioni di cittadini. E hanno deciso per il “no”, secco, senza appello. Non c’è stato nemmeno il dubbio.

Australia, il referendum che dimentica la storia – Le richieste del Primo ministro

Affinché il referendum avesse successo era necessaria una doppia maggioranza, vale a dire che sia la maggioranza degli australiani che la maggioranza degli Stati federali (sono complessivamente sei) votassero per il “sì”. Occorreva, dunque, il parere favorevole di almeno quattro di questi Stati per far in modo che la mozione passasse, ma il risultato è stato che tutti hanno espresso un secco “no”, bocciando così la proposta portata avanti nel suo programma dal leader labourista Anthony Albanese, al governo dopo un decennio di conservatori al potere. Tra i suoi buoni propositi di inizio mandato, il Primo ministro australiano chiedeva sostanzialmente il riconoscimento ufficiale nella Costituzione australiana per aborigeni e per gli indigeni delle isole dello stretto di Torres, con la conseguente creazione di un organo consultivo indipendente per i cittadini delle First Nations, ossia gli indigeni discendenti dalle popolazioni locali prima della colonizzazione britannica nel consultivo per gli indigeni di Australia: “Con il ‘sì’ si porrebbe fine a duecento anni di promesse non mantenute e di tradimenti, di fallimenti e di false partenze”, aveva detto presentando il referendum il 31esimo Primo ministro del Commonwealth dell’Australia.

Australia, il referendum che dimentica la storia

Australia, il referendum che dimentica la storia – Condizioni terribili

Un modo per provare, in un certo senso, a “chiedere scusa” per quanto commesso in passato e per come sono stati trattati fino a oggi i nativi, dando loro il “privilegio” di essere consultati da Parlamento e governo in riferimento a norme che riguardano le loro stesse comunità, come ad esempio i bassi salari, un tasso di povertà superiore alla media, le innumerevoli difficoltà nell’accesso all’istruzione e, soprattutto, l’enorme difficoltà nell’essere “accettati” a casa propria e integrati nel nuovo tessuto socio-economico del Paese. L’avevano proposto direttamente i leader delle diverse comunità indigene nella dichiarazione dell’Uluru del 2017, con la quale veniva di fatto ipotizzato un possibile percorso di riconciliazione definitiva con gli australiani di altre etnie, attraverso la creazione di un organo consultivo chiamato “La voce del Parlamento”. Una mano tesa che però non ha trovato nessuno dalla parte opposta. Oltre il 60% dei votanti ha preferito mantenere l’attuale status quo. Cioè, a tre australiani su cinque non interessa minimamente che questa popolazione, a tutti gli effetti composta da loro “connazionali”, continui a vivere in condizioni di miseria e di discriminazione, abbandonata a se stessa e segregata in un isolamento che spinge alla proliferazione di frustrazione, droghe, alcol, depressione e suicidi, molti dei quali in età adolescenziale. A loro, i “nuovi australiani”, va benissimo così.

Australia, il referendum che dimentica la storia – Governo Albanese

Una sconfitta per il rispetto della storia e per la tolleranza, ma pure per Anthony Albanese, colpito duramente dall’opposizione durante tutto l’iter che ha condotto verso il referendum. Una volta appreso l’esito della votazione, il Primo ministro australiano si è presentato in televisione visibilmente commosso, trattenendo a stento le lacrime nel suo discorso al Paese: “Miei cari australiani, innanzitutto voglio dire che, anche se il risultato di stasera non è quello che speravo, rispetto assolutamente la decisione del popolo. E lo dico ai milioni di australiani, in tutto il nostro grande Paese, che hanno votato ‘sì’ con speranza e buona volontà. Questo non ci dividerà, siamo sempre tutti australiani e dobbiamo portare il nostro Paese oltre questo dibattito, senza però dimenticare il momento in cui lo abbiamo avuto. Sapevo che non sarebbe stato facile, né avrei mai potuto garantire che il referendum sarebbe stato un successo. La storia ci dice che solo 8 su 44 lo hanno avuto. Quello che potevo promettere era che saremmo andati all in e che ci avremmo provato. Abbiamo dato agli aborigeni e agli isolani dello Stretto di Torres l’adempimento della loro richiesta. Abbiamo sostenuto questo cambiamento non per comodità, ma per convinzione. Perché credo che fosse la cosa giusta da fare”.

Australia, il referendum che dimentica la storia

Australia, il referendum che dimentica la storia – Riconciliazione

Non è riuscita invece a nascondere le lacrime Linda Burney, il ministro per gli indigeni australiani, che ha esortato gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres a non lasciarsi sconfiggere dal risultato: “So che gli ultimi mesi sono stati duri. Siate orgogliosi dei 65.000 anni di storia e cultura. Andremo avanti e avanti. Questa non è la fine della riconciliazione”. Perché loro la chiamano così. Riconciliazione. Potrebbero definirla in mille altri modi più duri, probabilmente ne avrebbero tutto il diritto di farlo, a maggior ragione dopo aver preso consapevolezza che l’intero Paese non ne vuole sapere di loro e delle loro esigenze. Né della loro volontà di riconciliarsi con la loro terra, quella di cui sono stati privati e in cui vengono considerati come degli estranei indesiderati. Senza alcun rispetto per 65.000 anni di storia.    

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Nativi indesiderati

Nell’ultimo decennio il Venezuela ha vissuto una metamorfosi sostanziale: nel mezzo le vite di chi fugge, chi torna e chi non se n’è mai andato. Ad affrontare il tema è Martina Martelloni, collaboratrice de il Millimetro, che direttamente sul posto ha raccontato la situazione degli indigeni, anche attraverso un eccezionale reportage fotografico. Alessandro Di Battista analizza le contraddizioni del “libero e democratico” Occidente nel rapportarsi con le operazioni militari di Israele, le sanzioni che colpiscono solo la Russia e le solite immagini che i TG nazionali nascondono. All’interno L’angolo del solipsista, Tutt’altra politica, Line-up, Un Podcast per capello e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Giacomo Ciarrapico, Paolo Di Falco, Alessandro De Dilectis, Riccardo Cotumaccio e Cesare Paris. Si aggiunge inoltre Ultima fila di Marta Zelioli. Copertina a cura de “I Buoni Motivi”.

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