Brasile-Argentina, questa moneta non s’ha da fare

Una «perdita di tempo» per alcuni, «una notizia molto positiva» per altri. Così è stata accolta la decisione del Presidente argentino, Alberto Fernández, e del suo omologo brasiliano, Luiz Inacio “Lula”, di dar vita a un’unità di conto (non una moneta comune, come molti hanno scritto), annunciata un mese fa tramite un articolo pubblicato sul settimanale argentino Perfil. L’idea sarebbe quella di creare una terza valuta (il cui nome potrebbe essere “sur”, “sud” in spagnolo, secondo quanto riportato dal Financial Times) in aggiunta al real e al peso – che quindi resterebbero operative – per incrementare il commercio bilaterale e, soprattutto, emanciparsi dal dollaro statunitense. Per poi un giorno, chissà, estenderne l’utilizzo a tutto il Sudamerica. Un progetto ambizioso, che richiama alla mente l’ECU, l’“unità di conto europea” introdotta nel 1978 e poi abbandonata il 1º gennaio 1999 per far posto alla vera moneta unica, l’euro. E che, qualora venisse realizzato, concorrerebbe alla nascita del secondo blocco valutario più grande al mondo, considerando che l’America Latina rappresenta il 5% del Prodotto Interno Lordo mondiale (l’Unione europea il 13%). Ma è presto per cantar vittoria. Perché Buenos Aires e Brasilia, dal punto di vista monetario e fiscale, non potrebbero essere più diverse.

Questa moneta non s’ha da fare – Brasile e Argentina, vicini ma lontani

Il Brasile ha un tasso di cambio fluttuante, una Banca centrale indipendente e 300 miliardi di dollari (circa 276 miliardi di euro) in riserve valutarie che, di fatto, lo rendono un creditore del sistema finanziario internazionale. «Peccato che qualche giorno fa, Lula abbia fatto un discorso molto duro criticando proprio l’autonomia della Banca centrale, in particolare il suo obiettivo di inflazione», tiene a precisare a il Millimetro Franco Bruni, Economista e docente presso l’Università Bocconi di Milano (e anche Vicepresidente ISP) che non si sente poi così sicuro nel definire il Brasile un Paese stabile. E poi c’è l’Argentina, che di autonomia della Banca centrale non vuole neanche sentir parlare, tanto che l’autorità bancaria stampa moneta su ordine del Presidente per pareggiare il deficit di bilancio. Non è un caso se nel 2022 l’inflazione nel Paese abbia toccato quota 95%, mentre in Brasile non arrivava neanche al 6%. Non solo. Buenos Aires deve oltre 40 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale, l’organizzazione che da anni, dopo il salvataggio del 2018, garantisce lo Stato dall’insolvenza; inoltre, è quasi del tutto priva di riserve valutarie ed è impossibilitata ad acquistare dollari a causa degli stringenti controlli sui capitali imposti dal Governo.

Brasile-Argentina, questa moneta non s'ha da fare
Franco Bruni, Vicepresidente ISP

Non da ultimo, i due Paesi non hanno un mercato comune né un’area di libero scambio e i flussi bilaterali, l’anno scorso, si sono attestati al di sotto dei 30 miliardi di dollari (rispetto ai 40 di dieci anni fa). Elementi che hanno fatto storcere il naso a tanti economisti al momento dell’annuncio di Lula e Fernández. A onor del vero, attraverso la creazione di un’unità di conto, l’Argentina riuscirebbe a liberarsi dal tanto vituperato giogo Usa. Ma sarebbe davvero la soluzione a tutti i problemi? «Il Paese si troverebbe a pagare in una moneta estera che sì, non sarebbe più il dollaro, ma che dovrebbe comunque essere ancorata a qualcosa, per esempio a un paniere di valute. Questo progetto mi sembra più una boutade politica che qualcosa di fattibile in termini economici», spiega a il Millimetro Elisa Borghi, Economista e docente presso l’Università Bocconi di Milano.

Questa moneta non s’ha da fare – Il nodo argentino

A pesare sull’effettiva realizzazione di un’unità di conto è proprio la grande instabilità economica dell’Argentina. Un’instabilità che, negli anni, l’ha condotta a dipendere dagli Stati Uniti e ad avere un’inflazione che, ormai, è diventata un’iperinflazione. «Questa situazione crea difficoltà anche se si vuole creare una “semplice” unità di conto, figuriamoci una moneta comune come molti giornali, erroneamente, hanno scritto. Sostituire il dollaro con una valuta come il sur non risolverebbe le criticità di Buenos Aires. Al massimo, nel breve periodo, potrebbe ovviare alla carenza di dollari, ma poi? Il commercio con il Brasile risulterebbe comunque saturato da un’altra valuta, sarebbe come pagare le importazioni in una moneta estera.

Brasile-Argentina, questa moneta non s'ha da fare

Il reale beneficio che l’Argentina potrebbe trarre da questo sistema dipende solo dalla stabilità della sua valuta nazionale nei confronti della nuova moneta di conto. Esattamente come avviene oggi con il dollaro», prosegue Borghi. Se il Brasile, nonostante le incertezze politiche, è riuscito nel tempo, e con fatica, a costruire un’economia più solida, quella di Buenos Aires è rimasta debole, quasi del tutto priva di una disciplina monetaria e fiscale e ancora oggi, a distanza di decenni, il Paese ha difficoltà a finanziarsi e a tenere sotto controllo l’inflazione. «Sarebbe bello se, accanto ai discorsi propagandistici, i due presidenti preparassero un briciolo di programma di stabilizzazione monetaria, se riconoscessero la necessità di avere una Banca centrale indipendente che stampi moneta per stabilizzare l’inflazione (e non per finanziare i dittatori) e se si mettessero di buona lena per sviluppare una disciplina di bilancio con tutti i parametri del caso, aiutandosi a vicenda a disciplinarsi».

Questa moneta non s’ha da fare – «Prendessero esempio dall’Europa»

I precedenti, in fondo, non mancherebbero. «È quello che abbiamo fatto in Europa quando, verso la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, abbiamo cominciato a parlare di certi temi con il Sistema monetario europeo. Da quel momento, è scattato un lavoro lunghissimo (e se è stato lunghissimo da noi, figuriamoci in Sudamerica) in cui guardavamo gli uni a casa degli altri per vedere se tutto fosse a posto, facevamo quasi a gara a chi riuscisse a tenere più in ordine la propria moneta, fino a quando abbiamo deciso di prendere la Germania come benchmark e ci siamo allineati. Il Sudamerica, in particolare l’Argentina, dovrebbe fare qualcosa del genere, altrimenti non avrà alcuna possibilità di mantenere stabili i rapporti di cambio. E fino a quel momento, neanche l’unità di conto ha senso. Supponiamo che Buenos Aires paghi un’esportazione brasiliana con il sur, che contiene un certo quantitativo di pesos e real. Se in Argentina, a un certo punto, l’inflazione schizza alle stelle, cosa se ne fanno i brasiliani di quella robaccia? La buttano via. Per questo, fintantoché non ci si mette d’impegno, quelle dichiarazioni non hanno valore». E in ogni caso, non bisogna dimenticare un dettaglio. Negli anni, l’instabilità economica e politica del Sudamerica ha fatto sì che nell’area la Cina assumesse un ruolo significativo.

Brasile-Argentina, questa moneta non s'ha da fare

«Anche nel caso in cui Brasile e Argentina riuscissero a portare a termine questo progetto, non per forza questo contribuirebbe ad aumentare in maniera importante gli scambi o il benessere economico: ormai Pechino è un partner commerciale fondamentale», avverte Borghi. Ma c’è di più. Perché, come fa notare Bruni, difficilmente la longa manus cinese si accontenta di poco: «Buenos Aires e Brasilia dovrebbero stare molto attente perché la Cina può anche accettare qualcosa di non conveniente all’inizio, come usare la nuova valuta di conto, ma solo perché sa di poterci guadagnare. Come? Magari, comprando interi pezzi di terra del tuo Paese, intere imprese, fino a dominarti. Potrebbe, addirittura, prestare ad Argentina e Brasile parecchi renminbi (la moneta cinese, molto più stabile di real e pesos) fino a farsi cedere la sovranità monetaria».

Questa moneta non s’ha da fare – Questione di propaganda

Non sono certo gli unici economisti, Borghi e Bruni, ad aver reagito con tanto scetticismo alla dichiarazione dei due leader sudamericani. Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, in un post su Twitter ha dichiarato: «Questo è folle». L’Oxford Economics, società di consulenza economica globale, ha rincarato la dose: «Il sur non solo è irrilevante, ma anche irrealizzabile». Walter Schalka, Presidente di Suzano, una delle principali aziende mondiali di cellulosa e carta, con sede a San Paolo: «È qualcosa che non creerà alcun valore per il Brasile». Ma allora perché questo annuncio? E perché proprio ora? Franco Bruni non ha dubbi: «È una risposta alla decisione degli Usa di alzare, circa un anno fa, i tassi di interesse per frenare l’inflazione». Conseguenza, il dollaro si è rafforzato, mettendo in ginocchio Stati poco solidi come Brasile e Argentina, a cui è iniziata a servire sempre più moneta locale per acquistare dollari. Così, «tutta la liquidità arrivata in Sudamerica, così come in altri Paesi in via di sviluppo, durante gli anni dei tassi a zero, adesso sta tornando sulla valuta forte, sugli investimenti a Washington. Allora come reagiscono Lula e Fernández? Annunciando che faranno a meno del dollaro». Un’ipotesi assurda: «Entrambi i Paesi hanno tra i migliori economisti monetari internazionali al mondo. I politici si dovrebbero rivolgere a loro prima di scendere in piazza e rilasciare certe dichiarazioni populiste, dettate da un sentimento antiamericano. Che poi, brasiliani e argentini hanno bisogno di dollari: senza, non comprerebbero nulla da nessuna parte».

Brasile-Argentina, questa moneta non s'ha da fare

C’è chi sostiene, poi, che l’unità di conto potrebbe fungere da volano per il processo di integrazione regionale in America Latina, progetto che Lula starebbe portando avanti al fine di aumentare il peso geopolitico di quell’area del mondo, sfruttando proprio l’unità con i Paesi limitrofi. E d’altro canto, il prossimo 22 ottobre, in Argentina si terranno le elezioni generali per il Presidente, i membri del Congresso nazionale e i governatori della maggior parte delle province. E Fernández è eleggibile per un secondo mandato. Ma questa è politica. E al di là di certe speculazioni, a non convincere molti economisti della bontà del progetto è anche la memoria storica: non è la prima volta, infatti, che in Sudamerica si è tentato di realizzare un’integrazione economica e monetaria. Negli anni Ottanta, per esempio, furono proprio Brasile e Argentina a discutere della creazione di una valuta commerciale, il cosiddetto “gaucho”, che però non vide mai la luce. Nel 2019, Jair Bolsonaro rilanciò l’idea che, di nuovo, si risolse in un nulla di fatto. Per non parlare del Mercosur, il mercato comune dell’America meridionale, nato nel 1991, che riunisce Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay più, come Stati associati, Bolivia, Cile, Perù, Colombia ed Ecuador, e che «tre decenni dopo il suo avvio, deve ancora raggiungere l’obiettivo principale di integrazione commerciale per i suoi quattro membri fondatori», ha dichiarato alla CNBC Jimena Blanco, della Verisk Maplecroft, società globale di risk intelligence. La Sinistra sudamericana coltiva da tempo il sogno di emanciparsi dagli Stati Uniti. Eppure, neanche il fatto che oggi, per la prima volta in più di sette anni, i due giganti dell’area siano allineati politicamente sotto leader de la izquierda sembrerebbe bastare.

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