Errico Buonanno e l’importanza delle storie

Una capacità innata e il talento di incantare nella letteratura e, soprattutto, nella vita

Quando, non moltissimi anni fa, mi capitò fra le mani un libro magico: Vite straordinarie degli uomini volanti edito da Sellerio, appena finito di leggerlo sentii per Errico Buonanno, l’autore, un profondo senso di gratitudine e di amicizia al punto da sfiorare in me una fratellanza di sentimenti e intenti. Sensazioni che crebbero e si radicarono ancora di più quando lessi Teresa sulla luna, libro bellissimo e dolcissimo pubblicato da Solferino.

La capacità di scrivere storie di Buonanno
La meraviglia di scrivere delle storie – ilMillimetro.it

Non è facile né scontato che, grazie alla scrittura, si riesca a trasmettere chi siamo intimamente. Anzi, spesso la letteratura è il pretesto per nascondersi dietro maschere e metafore. Errico Buonanno, da quel grandissimo scrittore che è, riesce a essere se stesso senza nessun camuffamento. E benché le sue siano storie meravigliose, paradossali, divertentissime, sono tutte – dalla prima all’ultima riga – di una sincerità debordante. È come se, scrivendo, Buonanno mettesse sulla spalla del lettore una mano e gli dicesse: “Vieni con me, fammi compagnia. Ti voglio mostrare un panorama che ti renderà felice”. E difatti, giunti all’ultima pagina di ogni suo libro, la scrittura di Errico Buonanno ci rende felici. E di questo non finirò mai di ringraziarlo.

Intervista a Errico Buonanno

Ma come nasce questa sua meravigliosa capacità di raccontare storie? Come nasce questo suo talento di incantare? Per scoprirlo, ho chiesto a Buonanno di raccontarsi. E lui, con la consueta generosità e simpatia che da sempre lo contraddistinguono, lo ha fatto.

Errico Buonanno intervistato da il Millimetro
Intervista con lo scrittore e giornalista Errico Buonanno (Screenshot YouTube) – ilMillimetro.it

Errico, tu fai un sacco di cose: scrivi libri, sei un autore televisivo e radiofonico. Se ti dicessi che sei un dilettantista alla Savinio cosa mi risponderesti?

“Prima di tutto che qualsiasi definizione mi apparenti vagamente a Savinio mi fa felice. E poi che vorrei davvero continuare a essere dilettante, nel senso di ‘dilettarmi’ e divertirmi lavorando e scrivendo: era per questo che avevo iniziato, ma è sempre più difficile ricordarselo. Mi conforta il fatto che continuo a fare lavori che hanno a che fare con la parola, e perciò, in fondo, sono rimasto fedele al primo amore. Ho a lungo lavorato in radio, ora in televisione. Poi ho fatto anche dei podcast. L’ultimo l’ho realizzato con Carlo De Ruggieri e Oram produzioni, Almeno credo. È uscito per RaiPlay Sound ed è tratto da un mio libro: L’eternità stanca pubblicato da Laterza. Si tratta di un viaggio fra le religioni meno conosciute alla ricerca di uno straccio di illuminazione. E alla fine questa esperienza si è trasformata in una sorta di ricerca sul senso dell’esistenza. Posto che la vita un senso non ce l’ha, allora inventiamocene uno”.

Che rapporto hai con l’invenzione?

“Direi che tutto ciò che ho scritto – dai saggi, ai romanzi – ruota intorno a un concetto quasi ossessivo. Ovvero: l’invenzione, l’immaginazione, conta. La nostra realtà è quella che creiamo con la fantasia, con ciò che decidiamo di rendere vero. Ecco perché amo la letteratura. Ed ecco perché, in qualche mio libro, me la sono presa con falsari e complottisti: perché la bugia, la realtà che raccontiamo, ha un suo peso specifico e si può trasformare in carne. Perciò sogniamo e raccontiamo responsabilmente. Le conseguenze possono essere molto più che concrete”.

C’è un tuo libro che ti sta particolarmente a cuore? Io ho una predilezione per Vite straordinarie degli uomini volanti

“Anche io gli sono molto affezionato. Forse un po’ più degli altri”.

Come è nato?

“Come risposta a un mio momento di crisi profonda. Mi sentivo inutile, stupido. Mi chiedevo: che ci sto a fare al mondo?”.

Addirittura!

“Sai, io ho un rapporto molto stretto con il lato oscuro della vita umana. Provo a trovare risposte, che sono sempre vitalistiche perché io sono un godereccio, amo la vita. Vite straordinarie degli uomini volanti nacque perché mi imbattei, per puro caso, in Giuseppe da Copertino: il santo ‘idioto’, come lo chiamavano, che aveva la testa fra le nuvole e che quando si sentiva felice volava. Avere la testa fra le nuvole è molto importante. Tieni conto che fino a prima della scoperta della forza di gravità, uomini volanti ce ne sono stati tantissimi. Le persone vedevano Giuseppe da Copertino volare. È documentato. Come mai oggi non vediamo più uomini volanti? Perché ci hanno detto che era impossibile! Abbiamo perduto quella capacità di stupirci. E non è un bene. Il nostro sguardo, la nostra immaginazione sono in grado di cambiare il mondo. E siccome la vita è totalmente votata alla nullità, a una tragedia, abbiamo un’unica soluzione: crearci, grazie alla fantasia, qualcosa di gioioso grazie al quale vivere”.

Qual è il tuo libro preferito?

“Mi piacciono i libri perché non ti obbligano a sceglierne uno piuttosto che un altro. Io diffido sempre di chi predilige un libro solo”.

Come è nata in te la passione per il libro e la lettura?

“Mia madre era insegnante di Lettere e mio padre un astronomo. Ed è stato lui a suggerirmi i libri che più mi hanno appassionato. Nella biblioteca di casa c’erano Calvino, Borges, Eco, Kafka (che ho scoperto da me) e tanti altri. È stata, però, mia madre a passarmi il senso delle storie, essendo lei una grande narratrice e, sospetto, anche una grande bugiarda perché mi ha raccontato una serie di fandonie sulla nostra famiglia. L’ho anche scritto in Teresa sulla luna“.

Fandonie di che tipo?

“Considera che io, fino al quarto ginnasio, ho creduto di avere origini albanesi perché mia mamma mi diceva che la nostra famiglia discendeva da Giorgio Scanderbeg. Tanto che, negli anni Novanta, quando c’erano gli immigrati albanesi che venivano in Italia per cercare di costruirsi una vita migliore, soffrivo con loro perché anche io mi sentivo albanese. Poi, in quarta ginnasio, per caso scoprii che Giorgio Scanderbeg fu nominato barone di Trani. Il cognome di mia madre è Di Trani. Ebbi un lampo: stai a vedere che mia madre ha supposto, da questa coincidenza, di essere discendente di Scanderbeg? Cioè si è raccontata, e l’ha raccontata anche a me, una storia per abbellire la realtà. Un po’ come fece Kafka quando vide al parco una bambina che piangeva perché aveva perso la sua bambola. La conosci?”.

No…

“Lui stava a Berlino, già consapevole di essere in fin di vita. Un giorno incontrò una bambina che piangeva disperata perché aveva perso la sua bambola. La vide e le chiese perché piangesse. Quando lo seppe le disse: ‘Ma no, non l’hai perduta la tua bambola. Mi ha scritto una lettera e domani te la porto’. E così, di lettera in lettera, tutte scritte da Kafka stesso, la bambola racconta alla bambina le sue esperienze, i viaggi fatti e quello che ha visto. Fin quando, nell’ultima lettera, dice alla bambina di aver incontrato un bambolotto del quale si è innamorata e che vuole stare insieme con lui. Ecco: grazie a questa storia, totalmente inventata, Kafka ha preparato la bimba a vivere il dolore del distacco dalla sua bambola in modo meno tragico. E lo ha fatto dando, allo stesso tempo, un senso ai suoi ultimi giorni di vita, perché sarebbe morto di lì a poco. A che serve, quindi, la letteratura, l’arte del racconto? Onestamente, un fine più alto di questo non lo trovo”.

Sono state pubblicate queste lettere?

“Sono andate tutte perdute”.

Chi è stato il tuo Kafka, colui che ti ha salvato nei momenti difficili?

“Tante persone mi hanno salvato. Ne sono cosciente. La mia attuale compagna sicuramente mi ha dato un sostegno fondamentale, così come molti amici e tanti altri che mi hanno fornito un perché nei momenti duri della mia vita”.

E tu, con i tuoi libri, pensi di aver salvato qualcuno?

“Ah non lo so! Molti mi dicono di sì e faccio finta di crederci. Nel mio piccolo, però, ho fatto nascere un bambino”.

Davvero?

“Sì sì. Quando pubblicai il mio primo romanzo e partecipai al Premio Strega la ragazza dell’ufficio stampa della casa editrice di allora, la Marsilio, accompagnandomi all’aeroporto incontrò un uomo che diventò, poi, suo compagno e padre dei loro figli. Allora mi sono sempre detto: se anche i miei romanzi finissero al macero tutti quanti, hanno comunque dato una vita”.

Quando hai cominciato a scrivere?

“Fin da bambino. Ricordo che scrissi un giallo dal titolo: Il giallo si tinge di rosso e poi Omicidio al Susan hotel, che ho ritrovato di recente. Disegnavo anche, facevo lunghissime storie a fumetti. Poi, ahimè, ho lasciato perdere. Mi piaceva recitare, fare il regista, cantare… Alla fine ho dovuto scegliere, fra tutte queste passioni, una e concentrarmi su quella. Professionalmente non è produttivo né conveniente essere un abile dilettante in tutto e per lungo tempo. Non va bene. C’è un momento in cui bisogna quagliare”.

E ti sei dedicato alla letteratura.

“Sì. Ho studiato Letteratura italiana moderna e contemporanea alla Sapienza. Nel 2003 con Piccola serenata notturna ho vinto il Premio Calvino e grazie a questo sono poi andato a lavorare come editor alla Marsilio. In quel periodo, attraverso Il Riformista col quale collaboravo, conobbi Chiara Gamberale, che cercava un autore e una voce per il programma che stava inaugurando per Radio 2: Io, Chiara e l’Oscuro. Furono tre stagioni radiofoniche bellissime e da lì ho iniziato a collaborare per la Rai chiudendo col mondo dell’editoria”.

Ti è piaciuto lavorare in una casa editrice?

“È stata una grandissima prova di umiltà. Perché vuol dire ricevere tantissimi dattiloscritti con lettere strappacuore di persone che pensano che il loro libro sia il più importante del mondo. Cosa che poi non sempre succede, creando insoddisfazioni tremende perché, anche se stampato, quell’autore non è detto vinca il Premio Strega. Questo mi è servito a farmi superare il blocco dello scrittore, perché mi resi conto che anche io ero uno di loro, ero come loro. Uno dei tanti. E questo mi portò a dire: scrivi, buttati, tanto siamo tutti carta da macero. Quindi: di’ la tua senza paura, dato che quello che facciamo, che scriviamo e persino la nostra sofferenza: niente di tutto ciò è al centro del mondo. Non gliene frega nulla a nessuno. Per questo odio, detesto chi si lamenta, il piagnisteo, il dramma d’amore. E te lo dico io che ne ho passate di cotte e di crude”.

Davvero?

“Ti racconto questa. Per un periodo ho abitato a Milano 3 e mi capitò di affrontare un momento di dura depressione. A un certo punto pensai: la faccio finita! Devi sapere che le case a Milano 3 hanno tutte le zanzariere, essendo un posto paludoso. Per buttarmi di sotto, quindi, dovevo prima alzare la zanzariera. Alzandola, la zanzariera faceva un rumore del tipo: gni gni gni gni. Ecco, questo gni gni gni mi fece tornare in me, realizzando quello che ti ho detto prima e che spesso siamo fondamentalmente ridicoli: sia che si tratti di cose belle che di cose brutte”.

Anche Ennio Flaiano la pensava un po’ come te. Ti senti vicino a lui?

“Moltissimo! Tra l’altro ora vivo a Montesacro, non lontano da dove Flaiano aveva la casa. C’è un suo libro che raccoglie progetti di film non realizzati. Uno di questi, La donna invisibile, mi è sempre piaciuto tantissimo”.

Di che parla?

“Di una coppia che, dopo anni di convivenza, non è più felice. Anzi: sono annoiati a morte l’uno dell’altra. Un giorno il marito immagina di essere visitato da una donna invisibile, la quale sa essere madre e compagna: il non plus ultra per lui. Ma anche lei, la moglie, immagina un uomo invisibile che finisce per diventare il compagno perfetto. A un certo punto la donna invisibile e l’uomo invisibile si innamorano e se ne vanno. E i due coniugi tornano a essere soli e annoiati. Lo trovo meraviglioso!”.

Tu sei uno scrittore molto ironico.

“All’inizio c’era solo la risata. Nel tempo, per vicissitudini varie e poi perché la vita è fatta così, l’ironia si è mescolata al pianto. Forse, oggi, prevale più il pianto. Anche perché convivo con un profondo senso di inadeguatezza. E allora, consapevole di ciò, dico: ridiamoci su. Ecco perché, come giustamente dici tu, c’è in me questo lato ironico e giocoso. Io sono uno vitale, un godereccio. Mi piace tantissimo la vita, nonostante i suoi alti e bassi”.

Domandona: perché scrivi?

“Guarda, io mi ricordo che quando vinsi il Premio Calvino, la sera della cerimonia di premiazione mi chiesero: ‘Cosa ti aspetti dal futuro?’, risposi: ‘Ho scritto Piccola serenata notturna perché desidero che la gente mi voglia bene’. Per me vale ancora oggi. Scrivo perché desidero che chi mi legge mi voglia bene”.

Quali dei tuoi libri salveresti e quali, invece, non salveresti?

“Voglio molto bene a Piccola serenata notturna, anche se aveva delle ingenuità. C’era una leggerezza che poi ho recuperato. L’accademia Pessoa per fortuna non si trova più in commercio e va benissimo così. Vite straordinarie di uomini volanti, come ti dicevo, lo amo molto”.

Non ti fa arrabbiare che alcuni tuoi libri siano finiti fuori commercio?

“E perché? Essere pubblicati non è un privilegio da poco. Anche se molti dei miei libri non si trovano più che problema c’è? Siamo tutti carta da macero. Perché i libri, anche se miei, dovrebbero fare eccezione?”.

Sei pignolo quando scrivi?

“Non mi rileggo mai, non sono pignolo nella scrittura né nella correzione. Per me scrivere è faticoso. Lo faccio perché voglio concludere la storia che ho iniziato a raccontare e non vedo l’ora di finire. E sai perché? Perché la sera voglio uscire, voglio vivere. La vita per me conta sempre più di qualsiasi altra cosa. Enrique Vila-Matas, in Bartleby e compagnia, racconta di lui a New York su un autobus che, a un certo punto, incontra una donna. Ne rimane folgorato. Amore a prima vista. Lei sta per scendere e lui, per avere una speranza, decide di seguirla. Poi si volta e vede, seduto sull’autobus, un vecchio. Chi è? Salinger. Lo riconosce. Che fare: scendere alla fermata per attaccare bottone con la ragazza, o restare sull’autobus per parlare con Salinger? Tu che avresti fatto?”.

Onestamente non lo so. Sarei molto combattuto.

“La risposta di Vila-Matas, e che io condivido, è: scendere con la ragazza, perché la vita deve sempre prevalere sulla letteratura. Poi il finale della storia è che Salinger e la ragazza stanno insieme e scendono insieme dall’autobus. Ma comunque, la vita viene sempre prima della letteratura. Vale solo questo, perché tanto crepiamo tutti”.

E quindi?

“E quindi viviamo! Anche senza raccontare o scrivere storie”.

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