Francesco Nuti: (non) ci eravamo tanto amati

Ora che è morto, lo scorso 12 giugno, tutto il cinema italiano si è stretto intorno a lui, dopo anni di silenzi o, al massimo, di sguardi commiserevoli. Adesso che non c’è più, tutti a decantarne la comicità stralunata, i calembour linguistici, l’innovativa visione che diede della Toscana e del suo entroterra, lo sguardo acuminato nel descrivere il rapporto con l’altro sesso, la capacità di muovere la risata con un semplice sguardo. Era lui il vero e unico alfiere dell’umorismo con la “c” aspirata che da Firenze ha travalicato i confini regionali, imponendosi su quelli nazionali. Era lui, altro che Benigni, ormai ridotto a pallido Pierrot che non riesce più a far ridere, perso com’è tra cattedratiche spiegazioni e melensaggini filmiche (da La tigre e la neve a Pinocchio). Era lui, altro che Leonardo Pieraccioni, che non ha fatto altro che girare la stessa variazione sul tema, quello dell’inguaribile sognatore capace di coronare il sogno d’amore con la bella di turno. Né Alessandro Benvenuti, troppo serio per essere compreso nell’alveo di chi fa ridere, forse troppo grottesco. Né, tantomeno, Massimo Ceccherini, sempre così sopra le righe, sempre così di cattivo gusto. Allora, per una volta, usciamo dai panegirici, svicoliamo dalle consuete orazioni funebri, e diciamo come stanno le cose, senza andare a toccare la vita privata dell’uomo/Nuti, senza giudicare cosa o chi lo ha portato, nel giro di un decennio, dagli stratosferici incassi al box office al naufragio artistico e personale.

Francesco Nuti: (non) ci eravamo tanto amati

Francesco Nuti: (non) ci eravamo tanto amati – Un manuale interpretativo monotematico

Francesco Nuti non è mai stato un grande regista, né un grande attore. Nel primo caso perché ha sempre anteposto uno spropositato ego narcisistico alla storia narrata, veicolando qualsiasi idea di regia in favore di un monumento alla sua persona. Nel secondo perché non si è mai affrancato da performance basate su strizzatine d’occhio e sguardi birichini, faccine buffe e mossette, fossette sul mento e sorrisi accattivanti. Un manuale interpretativo monotematico che non lo ha mai portato a travalicare il perimetro della commedia e ad avventurarsi in quello drammatico, dimostrando così di poter dare qualcosa di diverso al suo pubblico. E non è un caso che la sua unica interpretazione in territori “altri”, ad esempio il terribile Concorso di colpa di Claudio Fragasso, thriller strampalato a metà strada fra revanchismo politico e dramma giudiziario, si rivelò penosa, sempre fuori registro, sempre incerta e fuori sincrono. Uno strazio attoriale in cui a Nuti riuscì di sbagliare tutto quello che era possibile sbagliare. È vero, i suoi film hanno dettato legge al botteghino fino al 1994, anno di quella Caporetto produttiva che prende il nome di OcchioPinocchio e che sbarrò per anni il ritorno al cinema dell’attore toscano. D’altronde, far perdere una vagonata di soldi ai Cecchi Gori (Mario e Vittorio) di certo non deve essere stata una grande idea, e passare dai 13 miliardi stanziati di budget ai circa 30 finali non deve aver messo di buonumore i vulcanici produttori. Prima, però, Nuti riempiva le sale. Da Casablanca Casablanca fino a Donne con le gonne il pubblico ha sempre arriso all’ex dei Giancattivi, malgrado queste pellicole fossero degli scherzi tirati per le lunghe e dal fiato corto, asfittici nella narrazione e permeati da una vena di (ben?) nascosta misoginia che già allora lasciava il tempo che trovava.

Francesco Nuti: (non) ci eravamo tanto amati – Molte opere slabbrate

Di quella nuova ondata di comici che si imposero alla fine degli anni ’80, e che successivamente la critica catalogò nella categoria dei “malincomici”, Nuti forse è stato quello che meno di tutti, malgrado gli incassi, è riuscito a imporsi con cifre contenutistiche e stilistiche capaci di travalicare la sola dimensione comica. Troisi, ad esempio, con Ricomincio da tre e Scusate il ritardo riuscì a rappresentare Napoli e i giovani nati all’ombra del Vesuvio con un’acutezza di sguardo e una lievità crepuscolare che ancora oggi sono pietra di paragone, e ci regalò un film bellissimo come Le vie del signore sono finite, dove una tenera storia d’amore veniva inserita nell’Italia ottusa e crudele del ventennio fascista e fatta deflagrare a contatto con gli elementi dissonanti dei disturbi psicosomatici e di una religione cattolica pregna di superstizione. Verdone, d’altro canto, dopo le parentesi fregoliane degli esordi (Un sacco bello, Bianco rosso e Verdone), riuscì a scrollarsi di dosso le innumerevoli maschere dell’avanspettacolo, regalando al pubblico l’ultima, forse definitiva, grande opera della cosiddetta “commedia all’italiana”, lo struggente Compagni di scuola, in cui si delineava con ferocia e profondissima lucidità lo sbando umano e sentimentale di un’intera generazione. A Nuti questo non è riuscito, nemmeno nel suo periodo migliore. Né in Tutta colpa del paradiso, favoletta edificante per tutta la famiglia, né in Caruso Pascoski (di padre polacco), in cui si mettevano alla berlina le teorie psicanalitiche che tanto stavano prendendo piede nell’Italia di quegli anni, né in Willy Signori e vengo da lontano, in cui si tentava con esiti incerti la carta del road movie picaresco. E le pellicole successive al disastro produttivo del 1994, anno di (dis)grazia in cui Nuti provò a reinventare il mito collodiano, sono opere slabbrate, dimenticabili, prive di qualsiasi elemento che possa portare a una loro posteriore rivalutazione (Il signor Quindicipalle, Caruso zero in condotta, Io amo Andrea).

Francesco Nuti: (non) ci eravamo tanto amati

Francesco Nuti: (non) ci eravamo tanto amati – ‘Stregati’ è l’unica perla

Eppure, nella filmografia di Nuti, una gemma c’è. Si trova nascosta proprio a cavallo di quegli anni di massimo successo economico e di massima popolarità, anche se nessuno sembra ricordarla, anche se nessuno la menziona mai. Il film si chiama Stregati, esce nel Natale del 1986, anno in cui L’ultimo imperatore di Bertolucci e Attrazione fatale tengono banco al botteghino, e ricompone la coppia Francesco Nuti/Ornella Muti già vista l’anno prima in Tutta colpa del paradiso. È una pellicola anomala, una sorta di UFO nella filmografia di Nuti. E forse per questo è la più riuscita, la meno commerciale, la più intima e dolorosamente sincera. Ci sono un lui e una lei che si incontrano, si annusano, si sfiorano e si amano, tutto nell’arco di una notte, prima che ognuno prenda strade diverse che forse non si intersecheranno mai più. Non c’è altro in Stregati, eppure in questa storia d’amore così semplice e lineare si respira un qualcosa di magico e trattenuto che ti si insinua sottopelle e che non riesci a scacciare. Sarà per gli occhi enigmaticamente felini di una Muti all’apogeo della sua bellezza, sarà perché l’ingombrante ego del Nuti attore non riesce a sovrapporsi all’altrettanto ingombrante ego del Nuti regista, sarà per quella Genova by night, scandagliata fra l’area portuale e quella dei cinema porno prossimi alla chiusura, costantemente bagnata dalla pioggia. Sarà per quella colonna sonora riverberante echi jazz e blues da pelle d’oca, in grado di far percepire tutte le sfumature di un rapporto sentimentale nato al tramonto e tramontato all’alba. Ecco, per questo unico grande film, Francesco Nuti andrebbe ricordato. Eppure, nessuno lo ha fatto. Un peccato, perché quando le luci in sala si accendono e sullo schermo si stagliano i titoli di coda, quando la Genova del sogno svanisce a contatto con le prime luci di un mattino che ci riporta all’uggiosità di una Genova troppo grigia per essere vera, quando il soundtrack di Giovanni Nuti si perde in echi lontani, solo in quel momento possiamo svolgere lo sguardo alla ricerca di Francesco e, non trovandolo, dire mestamente “Madonna che silenzio c’è stasera”.

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Il prigioniero del secolo

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