Ola, venticinquenne a Rafah, da dottoressa in Chimica a rifugiata senza passato
Si truccano le donne di Gaza senza passato e senza futuro. Forse perché hanno solo il presente, che fa schifo ed è prigioniero del disordine. Allora facciamo almeno che i capelli sotto l’Hijab siano a posto, e che almeno il viso sia d’inganno al disfacimento.
Si truccano perché hanno paura che la guerra, oltre a tutto il resto, le abbia rese brutte.
Si truccano perché controllando il loro volto forse si illudono di poter controllare anche le emozioni. Perché si sa che è da lì che escono.
Il Kajal invece lo hanno sempre a prescindere, per loro non è considerato nemmeno trucco. Nasce come protezione per gli occhi dall’ambiente. E forse metterlo fa avere la sensazione che la terra sia ancora lì, che la salsedine sia ancora lì, che la sabbia delle sponde e del deserto sia ancora lì. Che il vento soffi ancora, anche se è cambiato.
Si truccava, Noor, per le dirette con CGTN Europe, prima che evacuasse con i genitori in Egitto, ma si trucca anche Ola, venticinquenne laureata in Chimica e farmacia all’Al-Azhar University di Gaza, completamente distrutta dai bombardamenti israeliani dell’11 ottobre e del 4 e 21 novembre 2023.
Sua sorella Roba, studentessa di Medicina, e sua madre Mona, erano con lei a Rafah, in un’area chiamata Tel Al-Sultan fino a qualche giorno fa. Ora hanno raggiunto gli altri milioni di evacuati a Khan Younis, in uno spazio di terra che non si lascia intravedere, tante sono le tende. Suo padre Ahmed è rimasto nel nord della Striscia con i fratelli Ali e Alla. Avevano mandato avanti le donne della famiglia quando Rafah era considerata zona “safe”, zona sicura. O almeno così avevano letto dai volantini piovuti da quel cielo che tante cose fa cadere giù. Tante cose che purtroppo fanno solo male: notizie di nuove evacuazioni, bombe, armi chimiche, e perfino cibo che, ad oggi, ha ucciso centinaia di persone, tra quelli colpiti dai pacchi, quelli affogati in mare e quelli diventati bersaglio dei cecchini israeliani.
Still alive? (Ancora viva)
Yes, sis, Inshallah (Sì, sorella, grazie a Dio)
Ola, Gaza e il post-7 ottobre
Ola, nome arabo che significa “magnificenza”, parte per il sud della Striscia il 15 ottobre 2023. La loro bellissima casa resiste solo otto albe dal 7 ottobre. Poi diventa polvere, portando con sé tutto. Lo aveva capito Ola e lo avevano capito tutti i suoi vicini di casa che questa guerra non sarebbe stata come le altre, come le precedenti cinque a cui ha assistito dal 1999, anno in cui è nata. Lo avevano capito tutti che sarebbe stata “vittoria o morte”. Non sapeva però che quella mattina del 15 ottobre sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto suo nonno. E non sapeva che avrebbe visto più morte che tramonti e respirato più l’odore di sangue che quello del mare. Come quando il carro che viaggiava davanti a quello su cui c’era lei, sulla strada Salah al-Din, viene colpito dall’esercito israeliano e lascia volare pezzi di corpo davanti ai suoi occhi.
Suo padre Ahmed, i fratelli Ali e Alla e il nonno restano a casa di uno zio paterno.
Riescono a sentirsi ma non tutti i giorni. A volte la comunicazione salta a sud, altre volte a nord, altre ancora non c’è elettricità da una parte o dall’altra. Ma riescono a sentirsi almeno un paio di volte a settimana.
Poi l’autunno diventa inverno, arriva dicembre.
Ola perde i contatti con il padre e i fratelli per undici giorni. Sono i giorni in cui iniziano a girare su Instagram e TikTok le foto dei civili palestinesi con gli occhi bendati, imbavagliati, denudati, legati e messi in fila.
Al decimo giorno senza notizie, Ola riconosce il padre proprio in un reel di Instagram: lo vede nudo che parla con uno dei soldati. Di fronte a lui riconosce uno dei due fratelli, anche lui nudo. E riconosce quella zona di Gaza, proprio vicino alla casa dello zio in cui si erano rifugiati i maschi della sua famiglia. Pensa siano morti ormai. Invece lui, i figli e il nonno sono stati fortunati, se si considera fortuna vivere e non morire. Vengono rilasciati, forse grazie alla ramanzina del mondo a Israele, dopo due giorni lasciati sulla spiaggia senza cibo e senza acqua. Era dicembre. Ahmed lo racconta a Ola in un messaggio vocale inviato su Messenger all’undicesimo giorno di assenza.
Dopo questo episodio, la salute del nonno peggiora. Era sopravvissuto alla Nakba del 1948, a questa non ce la fa. Si spegne a 92 anni, soffocato dal gas e dal fosforo bianco lanciato da Israele il 16 dicembre 2023. Il padre di Ola lo ha seppellito in quel che restava della loro grande casa. Così avrebbe voluto.
Anche una cugina di Ola muore poco dopo, di cancro, non potendo ricevere più i trattamenti.
Ogni giorno arriva una notizia, ormai vecchia, di qualche parente che non ce l’ha fatta più.
Proprio così, vittoria o morte.
I maschi della famiglia sono rimasti a nord, la zona resa isolata e senza aiuti, dove il cibo non c’è. “Grazie ad Allah” che almeno non sono stati ammazzati mentre cercavano di prendere la farina durante il flour massacre.
Still alive?
Yes, sis, Alhamdulillah.
L’occupazione di Rafah
Negli ultimi giorni, con l’occupazione di Rafah, nemmeno quei pochi aiuti umanitari che riuscivano a entrare da sud sono ammessi. E i coloni continuano a danneggiare i pacchi di cibo destinati a Gaza o a interrompere le strade con massi di pietra.
A Rafah il cibo c’era, ma comunque non bastava. E quello che c’era costava troppo. Ola non riusciva a comprarlo, non avendo abbastanza shekel sul suo conto PayPal, unico metodo per poter prelevare velocemente, se conosci la persona giusta. Non c’è un giorno in cui riesca a sentirsi sazia. E non le piace se le viene chiesto se oggi è riuscita a mangiare qualcosa.
Loro, che avevano un grande pezzo di terreno agricolo, in cui coltivavano frutta e verdura che riuscivano a condividere con tutti i parenti e i vicini. Avevano anche migliaia di mucche e pecore. Era la primaria fonte di sostentamento della loro famiglia, si consideravano ricchi. Si consideravano benedetti da Allah, per quei beni preziosi e per aver potuto studiare fino a laurearsi nel 2021. E pensare che aveva un’intervista di lavoro segnata sul calendario per il 9 ottobre 2023. Tutto è sparito con le bombe, e il terreno e gli animali cancellati da un bulldozer.
Ola, come altri giovani di Gaza con social media accounts, aveva iniziato a raccogliere dei soldi tramite una pagina GoFundMe per poter pagare la propria evacuazione, quella della madre e quella della sorella, per un totale di ventimila dollari. La vita di un abitante di Gaza al momento costa più o meno 5000 dollari. Anzi, costava, perché ora che i soldati israeliani sono entrati a Rafah e hanno occupato anche il confine non si può più uscire, nemmeno se si ha la rara fortuna di trovare i soldi. Uscire fisicamente poi, perché chi è riuscito a evacuare in Egitto continua a cercare di sopravvivere, perché il survivor guilt, il senso di colpa di essere sopravvissuti, fa male, come fa male non sapere se, una volta addormentati, si resterà nel buio per sempre. Anche per questo Ola cerca di restare sveglia più che può, nonostante la fame, nonostante la sete.
Ad oggi, Ola ha perso nuovamente i contatti con il padre e i fratelli. L’esercito israeliano, mentre tutto il mondo (quello a cui importa) era con gli occhi su Rafah, ha infatti attaccato pesantemente ancora una volta il nord e il campo profughi Jabalia.
Still alive?
Yes, Inshallah.
Milioni di persone in attesa
Intanto Rafah si è quasi svuotata, chi ha un mezzo di trasporto con carburante o 1000 shekel da pagare a chi guida è tornato a Khan Younis, aggiungendosi agli altri che non sono mai arrivati al confine con l’Egitto. Milioni di persone in attesa della morte o di un gesto da parte del mondo che sembra avere più peso di Allah. Milioni di persone, una sopra all’altra.
Ola, la mamma e la sorella hanno trovato un mezzo il 10 maggio e sono partite il 12 maggio per Al-Mawasi. Ancora nessuna notizia del padre e dei fratelli. E le tremano le mani quando vede i video provenire da Instagram sulle condizioni del nord della Striscia. Un po’ come alle milioni di persone che urlano da mesi il cessate il fuoco e che vedono morte e distruzione tra le loro mani ogni giorno. Ma per Ola c’è in gioco la vita del sangue, del loro sangue, oltre che la propria.
“Morire da martire nella propria terra ti fa onore, al resto del mondo che non ha fatto niente ci pensa Allah”, dice. Ma nel successivo messaggio, inviato su WhatsApp quando riesce a connettersi, si contraddice dicendo che vorrebbe vivere, vorrebbe lavorare come farmacista e chimica, vorrebbe che la sorella finisse gli studi come medico, vorrebbe rendere sua madre orgogliosa. Vorrebbe tornare a fare quello che faceva prima di laurearsi: svegliarsi all’alba per pregare, studiare, andare all’università, tornare a casa, mangiare il pranzo, riposare, studiare ancora e poi andare a dormire.
Oppure tornare a uno di quei giorni in cui lavorava, uno di quelli che formavano la sua quotidianità fino al 7 ottobre, quando lavorava al Ministero della Salute, andava in palestra, tornava a casa e si incontrava con i parenti, o faceva shopping da LC Waikiki con le amiche. E poi, di nuovo, meglio che Allah la chiami a sé, almeno non sente il peso della fame e quello dell’attesa.
Almeno non sente il peso del dolore con il suo corpo ormai troppo leggero.
Still alive?