Il tango di Messi tra le dune del Qatar

Nelle sabbie intorno a Doha diventate rettangoli verdi con linee bianche, Leo Messi è un uomo in missione. Sulle fragili spalle alte meno di un metro e settanta, il 10 della Seleccion porta un peso che, già in passato, l’ha stritolato. Il peso di un popolo che si aggrappa al suo talento infinito nella speranza di salire sul tetto del mondo, in un contesto di crisi che ne sta fiaccando il morale, oltre che il portafogli. Il peso di una squadra di buona qualità, ma non di certo all’altezza di molte corazzate europee con panchine profonde e giocatori esclusi, tanto forti quanto scontenti. Il peso di una carriera in cui ha vinto tutto quello che un calciatore professionista può vincere, in un palmares dove, dopo l’agognata Copa America, manca solo quel titolo lì. Il peso del paragone con il più grande, Diego Armando Maradona, che da ragazzo d’oro è assurto a dio metafisico del calcio in Argentina e non solo, cui tutti lo accostano come se eguagliarlo, superandolo, perfino, fosse un atto dovuto perché la sua grandezza gli venga riconosciuta. Non è la prima volta che Messi riceve la chiamata della Storia. Questi fardelli, infatti, si sono affacciati altre volte nella vita di Lionel Andrés da Rosario. Nel 2014, per esempio, quando nel fiore degli anni si trovò capitano e faro di un Albiceleste forse anche più forte di questa a giocarsi (a due passi da casa) quel Mondiale che lo avrebbe consegnato agli annali. Allora, Messi era un altro giocatore. I mezzi fisici erano forse migliori, la tecnica irraggiungibile la stessa. A essere diversa era la testa. Dopo l’incetta di gol nella fase a gironi, il nulla fino alla finale, dove il giustiziere tedesco Mario Götze spense i sogni di gloria suoi e del popolo argentino. Poi, altre finali perse in Copa America e la decisione, in preda alle lacrime dopo l’ennesima capitolazione all’ultimo atto, di lasciare per sempre la nazionale. Decisione che, pochi mesi dopo, il 10 riconsidera, date le grandi pressioni di federazione e tifosi. Otto anni più tardi, Messi è un giocatore del tutto diverso da quello stritolato dalla pressione, al punto di arrivare a vomitare prima di molte partite. Ma la strada per il cambiamento è irta e piena di curve imprevedibili.

Lionel Messi – I primi calci

Diversamente da atleti tout-court come Cristiano Ronaldo, rivale di una carriera e co-protagonista degli ultimi quindici anni di calcio ai massimi livelli, la struttura fisica di Messi non è stata il suo migliore alleato. Dopo gli inizi al Newell’s Old Boys di Rosario, la scoperta che gli cambia la vita: a undici anni gli viene diagnosticata una forma di ipopituitarismo che gli causa un ritardo nella crescita (era visibilmente più piccolo dei suoi pari età, nonostante li superasse in talento). Né la sua squadra, né il River Plate, che si era interessata al suo profilo, possono o vogliono investire i 900 dollari al mese necessari per garantirgli le cure. Dove non arrivano i connazionali, ecco la squadra che gli cambierà la vita per sempre: il Barcellona. Il direttore sportivo, Carles Rexarch, lo vede giocare in un provino e rimane folgorato da questa pulce dribblomane tanto piccola quanto imprendibile. I catalani vogliono portarlo alla Masia, centro sportivo che sarà la pietra angolare dei successi dei Blaugrana, garantendogli tutte le cure di cui ha bisogno e inserendolo negli ingranaggi delle prestigiose giovanili del club. Non avendo nulla su cui fargli firmare il contratto, leggenda vuole che Rexach improvvisò e usò un tovagliolo di carta per fargli siglare il primo. Se in un primo momento la mancanza di casa si fa sentire, col tempo e l’esperienza la situazione migliora. Merito anche dei primi grandi amici nel club, che lo aiutano a vincere la timidezza. Il più importante di questi, per la crescita di Messi, è Cesc Fabregas, oggi in forza al Como. Lo spagnolo, a riguardo, ha dichiarato di pensare che il compagno di squadra fosse muto.

Il tango di Messi tra le dune del Qatar

«Poi, mentre eravamo in Italia, scoprimmo che parlava, anche grazie alla PlayStation». Il riferimento è a un torneo che il settore giovanile under 15 catalano giocò a Pisa, il Trofeo Maestrelli. Tito Villanova, ex allenatore del Barça scomparso nel 2014 a causa di un tumore, all’epoca responsabile di parte del settore giovanile catalano, lo porta in tournée per saggiare i frutti delle cure e della crescita. Messi ripaga la fiducia e si afferma come miglior giocatore del torneo, attirando (secondo versioni mai confermate dall’interessato) le attenzioni del Como di Enrico Preziosi, che lo avrebbe scartato perché «troppo gracile». Da lì, una carriera da fuoriclasse assoluto. Forse ineguagliabile. Sette palloni d’oro, di cui quattro consecutivi; sei Scarpe d’oro (tre consecutive); capocannoniere all-time della Liga con 474 reti e primo nella classifica degli assist con 191; calciatore ad aver segnato più gol in Liga in una singola stagione (50); calciatore ad aver segnato più reti in un anno solare (91). Eppure, nonostante i numeri bastino a circoscrivere una carriera da assoluto fenomeno, le ombre che lo hanno inseguito sono state molte. Dal paragone con el Diez per eccellenza, Diego Armando Maradona, fino al dualismo incessante con CR7, passando per la critica più ricorrente nella sua sfolgorante carriera: «Forte eh, non si discute, ma Messi è la ciliegina in una squadra di fenomeni irripetibili. E poi, sarà anche il capitano, ma non è un capopopolo, tantomeno un leader».

Lionel Messi – Le critiche e la consacrazione eterna

Critiche che pesano come macigni. Che lo ostacolano nel percorso verso il Maracanà, in Brasile, dove la Germania spegne i sogni suoi e del popolo argentino all’ultimo atto di un Mondiale in chiaroscuro. Critiche che lo affossano l’anno dopo nella Copa America di Santiago, dove Messi e compagni si arrendono ai padroni di casa del Cile, anche se il 10 sarà l’unico dei suoi a non fallire alla lotteria dei rigori. Critiche che rischiano di spezzare il filo che lo unisce alla Seleccion 12 mesi più tardi, quando nella Copa America del Centenario è ancora il Cile a trionfare e dove Messi manca l’appuntamento dagli 11 metri. La delusione è troppa, il rosarino dice basta con il calcio internazionale. L’addio, però, sarà solo un arrivederci. L’asso argentino decide di affrontare a testa alta i suoi demoni partendo dal sintomo più evidente: i mal di stomaco nei momenti topici. La cura dell’alimentazione viene affidata a un nutrizionista italiano, il dottor Giuliano Poser di Salice, Friuli-Venezia Giulia. Da quel momento, il rapporto con il cibo cambia e grazie alle consulenze periodiche con l’esperto (che attirano l’attenzione di tutta la stampa internazionale) gli infortuni diminuiscono. A questo percorso viene affiancato un grande lavoro sulla mente, i cui effetti si vedono soprattutto nella Seleccion. Siamo nel 2021. Sono passati cinque anni dalla delusione del Centenario che aveva portato la Pulga a lasciare, seppur per una manciata di giorni, la nazionale. Di fronte, nella cornice del Maracanà, il Brasile del grande amico Neymar, nella rivalità più accesa del Sudamerica. Messi, questa volta, non trema. Dopo un torneo da leader assoluto, in cui vince il titolo di miglior giocatore e capocannoniere, è lui ad alzare la Copa America nel cielo di Rio de Janeiro assieme ai suoi compagni. A 28 anni dall’ultima volta, due finali perse con lui in campo dopo, l’Argentina torna regina del continente e il suo capitano, finalmente, si erge a condottiero del proprio popolo. Non solo: grazie al primo titolo vinto con la sua nazionale, Messi eguaglia Ronaldo, che nel 2016 aveva trionfato nell’Europeo con il suo Portogallo.

Il tango di Messi tra le dune del Qatar

Un anno più tardi, nelle sabbie intorno a Doha diventate rettangoli verdi con linee bianche, Leo Messi è un uomo in missione. Il percorso verso il Mondiale, nonostante il trionfo di Rio, non è dei più semplici. I problemi finanziari del Barcellona lo hanno portato lontano dalla sua seconda casa, confinandolo in un esilio dorato all’ombra della Tour Eiffel e dei petroldollari del PSG. Dopo una stagione in chiaroscuro, tanto da escluderlo dalla lista del Pallone d’Oro per la prima volta dal 2005, la Pulga alza i giri in vista della rassegna qatarina. Il peso che nel 2014 lo schiacciò a terra è rimasto uguale. Messi, però, non è lo stesso. Gol all’Arabia Saudita nonostante la sconfitta, l’unica, la prima dopo 36 partite per la Seleccion. Gol al Messico, il primo su azione. Partita dominante nel decisivo incrocio con la Polonia. Ma il cambiamento più grande si ha dove in passato il 10 dell’Albiceleste era stato assente ingiustificato: nella fase a eliminazione diretta, la Pulce si carica l’Argentina sulle spalle e la porta di peso fino alla finale, segnando in ogni partita e dispensando assist e giocate come nei suoi giorni migliori, rispondendo con inedita grinta alle schermaglie avversarie (soprattutto olandesi). Poi, in finale, la doppietta che porta i suoi ai rigori dopo una partita che per 80 minuti sembrava già vinta, poi persa, poi di nuovo vinta e poi ancora persa. Dal dischetto, ai francesi tremano le gambe. Gli argentini, invece, hanno idee diverse. Quando Montiel si avvicina agli undici metri per calciare il rigore decisivo, Messi, prima di guardare l’esecuzione del compagno, alza gli occhi al cielo. «Dai Diego, daglielo». Palla da una parte, Lloris dall’altra. Sorride, la Pulga, mentre crolla a terra sotto un peso che, finalmente, lo lascia libero.

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