La dignità delle donne nelle carceri italiane

Reinserimento lavorativo e prevenzione, c’è ancora tanto da fare nelle carceri italiane, dove le donne che cercano un’altra opportunità sono circa 2276

Sul muro di cemento del carcere “Carmelo Magli” di Taranto c’è una finestra sul mare. La brezza profuma di vernice fresca e l’azzurro schizza il corpo delle detenute quasi si fossero appena tuffate. Il loro primo bagno dell’anno.

Molte donne, non solo italiane, rinchiuse in prigioni nostrane
Sono 2276 le donne nelle carceri italiane – (foto Pixabay) ilMillimetro.it

Non è legge che la libertà vada nella direzione da dentro a fuori. In Italia, le Onlus che si dedicano al reinserimento lavorativo e alla salute delle detenute in carcere invertono il senso di marcia da fuori a dentro. Nella Casa Circondariale tarantina, cortile e spazi interni adesso sono dipinti. È il diritto di liberare la propria creatività, di sentirsi bene nell’attesa di uscire.

La situazione delle carceri femminili in Italia

Stando all’ultimo rapporto Antigone del 31 marzo 2022 ci sono 2276 donne nelle carceri italiane: sono il 4,2% di tutti i detenuti, una percentuale che negli ultimi vent’anni si è assestata, ma che tra il ’91 e il ‘93 è andata oltre il 5%. Settecentoventisette hanno origini romene, nigeriane, marocchine, bosniache, bulgare. Anche se il distacco è lieve, le donne (31,9%) sono di più rispetto ai prigionieri stranieri (31,3%). Il carcere femminile di Rebibbia a Roma è il più grande d’Europa: adibito per la detenzione di 260 donne, al 30 aprile 2024 ne deteneva 344. C’è un medico a loro disposizione h24. A Pozzuoli gran parte dello spazio comune serve a stendere il bucato pulito. In terrazza, le donne possono prendere il sole. Oggi nel carcere ce ne sono 138: lunedì 20 maggio, a causa delle forti scosse di terremoto che hanno colpito la zona dei Campi Flegrei, le donne sono state evacuate presso altre strutture campane. La sera prima hanno dormito in cortile con la Direttrice e le guardie carcerarie. Nel carcere femminile di Trani alcune fanno le imbianchine, guadagnano denaro e proteggono il valore antico della struttura, che nel 1800 era un monastero benedettino. Al 30 aprile 2024, le donne detenute erano 43, la capienza della struttura è di 32 posti. L’ultima Casa Circondariale femminile italiana è quella di Venezia-Giudecca, sul Rio delle Convertite. Ci si arriva in barca. C’è un pianoforte nella sala comune. Rispetto alle altre strutture, in questa, dall’anno scorso, non ci sono stati tentativi di suicidio, autolesionismo, morti, aggressioni al personale o ad altre detenute, provvedimenti di isolamento disciplinare. La capienza è di 111 persone, al 30 aprile 2024 ce n’erano 84. La questione delle carceri femminili in Italia presenta non una contraddizione.

Le strutture italiane richiedono una salvaguardia particolare
Le strutture femminili in Italia sono sovraffollate – (Pixabay) ilMillimetro.it

Essendo solo quattro strutture (ce n’era una quinta, chiusa nel 2016, a Empoli. Nel 1992 era un carcere mandamentale, due anni dopo un carcere maschile e solo nel ’96 femminile), si associa quest’esiguità a un numero di detenute altrettanto scarso. Il divario di genere si traduce con l’assenza di risorse adeguate per le recluse. Spesso le donne non possono partecipare a corsi e attività sportive, perché la maggior parte è declinata sul modello maschile. L’unica divisione fattiva, prevista dalla legge, ha a che fare con la tipologia delle celle e i servizi – come quelli igienici. Dietro l’appellativo “detenuteci sono spesso donne analfabete, segnate da abusi psicologici e violenze sessuali; donne che dai margini della società traslocano in un posto sempre sulla linea di quel margine: quello fino al carcere è un tragitto breve. Le sezioni femminili nelle carceri maschili sono 44, e da tempo si richiedono più attività congiunte a vantaggio delle detenute, spesso dimenticate. La minoranza è anche strutturale: essendoci solo quattro strutture femminili, gli spazi sono sovraffollati. Rispetto agli uomini, le donne soffrono di più il disagio psichico: 6 detenute su 10 assumono psicofarmaci regolarmente. A Roma e a Pozzuoli c’è un medico disponibile tutto il giorno, non è così a Trani e a Venezia: nelle carceri femminili italiane la sanità sembra incarnare un 50 e 50.

La salute femminile in carcere: l’intervista a Carla Vittoria Cacace Maira, presidente Atena Donna

Si sta facendo tanto per la salute delle detenute. Un esempio di cura è Atena Donna. E curative sono le parole della presidente Carla Vittoria Cacace Maira, che ha raccontato cosa vuol dire dare dignità alle donne in carcere. “Abbiamo già assicurato screening e incontri di prevenzione alle donne di 10 strutture detentive su tutto il territorio nazionale”, attraverso un protocollo sottoscritto con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per quattro anni: è il progetto Atena Together.

Com’è la salute delle donne in carcere?

“È importante considerare l’aspetto del benessere psico-fisico nel suo complesso. Abbiamo realizzato un progetto bellissimo nella Casa di reclusione femminile di Pozzuoli, in collaborazione con lo staff medico della struttura e con il monitoraggio del prof. Raffaele Landolfi. Abbiamo seguito le detenute per un anno: le abbiamo aiutate a superare comportamenti dannosi per la salute come il fumo, la cattiva alimentazione, la scarsa attività fisica all’interno della struttura carceraria”.

È stato utile per loro?

“Molto. Hanno imparato a prendersi cura di sé e a disinnescare il disagio psicologico che determina questi comportamenti dannosi per la loro salute. A settembre replicheremo questo progetto anche nella Casa Circondariale femminile di Civitavecchia, e speriamo presto anche in altre strutture detentive”.

Come si sono mostrate le detenute davanti alla possibilità di effettuare screening gratuiti e prevenzione?

“Sono state molto partecipative. Le detenute sono interessate soprattutto all’ambito della psicologia e della dermatologia. Dipende dalle strutture in cui ci rechiamo, ma in generale queste donne fanno sempre più attenzione al loro benessere psico-fisico”.

Qual è la spinta propulsiva che vi spinge a impegnarvi per le detenute?

“L’idea che il tempo che le donne hanno a disposizione in carcere possa diventare un’opportunità per investire su se stesse, pensando finalmente alla propria salute, al proprio benessere, al proprio accrescimento. E quindi al proprio futuro, una volta fuori dal carcere”.

Come scegliete gli aspetti della salute da trattare nelle carceri femminili?

“Ascoltando i referenti del Servizio Sanitario Nazionale all’interno delle strutture detentive, per capire insieme quali sono le esigenze maggiori, cercando di supportarli nel loro prezioso lavoro quotidiano e organizzando incontri di prevenzione e di screening mirati”.

Anche il reinserimento lavorativo è importante. L’impegno di Luciana Delle Donne, founder Made in Carcere.

“Per le donne in carcere il lavoro è una forma di libertà e di libertà di espressione. Alcune rivendicano un posto, altre, madri, lo dimostrano con l’onestà di lavorare: hanno figli da mantenere. Le detenute del reparto femminile della Casa Circondariale “Borgo San Nicola” a Lecce – il carcere più grande della Puglia – sono state le prime a cui il brand Made in Carcere ha offerto un lavoro regolare, un impiego part-time di 6 ore. Le altre dipendenti sono nelle carceri di Taranto, Trani, Matera e Bari. Il progetto compie 18 anni, reinventa donne e tessuti. Toglie manette, crea braccialetti. È il 2006 quando Luciana Delle Donne – che il Presidente Sergio Mattarella ha nominato “Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica” lo scorso 31 marzo 2023 – scuce la sua vita da dirigente di banca e ne cuce una nuova. L’ago e il filo sono da allora un passaggio di consegna dalle mani di una detenuta a quelle di un’altra”.

Made in Carcere ha determinato un cambiamento importante nel Sud Italia?

“La scelta di consolidarci soprattutto al Sud è dovuta al fatto che qui purtroppo la filantropia è praticamente nulla. Abbiamo sostenuto l’avvio di circa 20 sartorie sociali di periferia”.

Cosa c’è oltre il materiale, oltre le borse e gli accessori realizzati dalle detenute?

“C’è l’opportunità di cambiare. E anche di mettersi in contatto con l’esterno. Per esempio con le nostre sartorie, o accogliendo per un mese gli studenti in carcere. Generiamo socialità, nuove abitudini, un approccio più aperto e dignitoso”.

Che cos’è il progetto BIL?

“Si tratta di un modello di economia riparativa, trasformata in rigenerativa. Non solo circolare. Il nostro più grande successo è che oggi tutti stanno replicando il nostro modello, e noi ne siamo felici. Per fare del bene non serve l’esclusiva”.

Spesso le punizioni non aiutato le donne in carcere
“Costruire e non punire” – (foto Pixabay) ilMillimetro.it

Non c’è bisogno di chiederle perché faccia tutto questo. Luciana Delle Donne ha anticipato la risposta e la domanda: “L’idea è di dimostrare che anche bellezza ed eleganza possono entrare in carcere. La logica non dev’essere mai punitiva, ma ripartiva e costruttiva”.

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