La guerra blocca lo sport, la Russia è fuori da tutto

“Lo sport è un elemento di unione e non di divisione, che si basa sulla parità dei diritti e appunto sulla condivisione delle esperienze”. È fondamentale partire da qui, da un concetto che sentiamo spesso ma sul quale non ci siamo mai soffermati abbastanza. Su questa frase infatti, così ricca e carica di storia, vengono organizzati dibattiti politici, istituite delle giornate mediatiche (con tanto di campagne di sensibilità) e altre iniziative più o meno lodevoli. Sia chiaro, tutto giusto e ammirevole, non fosse per quello che accade quando le situazioni diventano più gravi e difficilmente controllabili. La guerra in Ucraina ci mostra ogni giorno immagini terrificanti, scene che non avremmo mai voluto vedere e che non pensavamo potessero ripetersi a distanza di così tanto tempo. Eppure tutto ciò accade e continuerà, purtroppo, ad accadere. Quello che è stato fatto e che viene fatto ancora oggi agli atleti russi di qualsiasi disciplina, e che certamente si ripeterà nei prossimi mesi, è agghiacciante e senza senso. Anzi, forse un senso ce l’ha: quello di dividere ancora di più e colpire con punizioni ridicole il Paese invasore, come se Putin venisse “scosso” da sanzioni del genere. O come se il conflitto dipendesse da un tennista, da un calciatore o magari da un pilota, che probabilmente (ma di questo non possiamo averne certezza) avranno pure un pensiero diverso rispetto a quanto sta accadendo dallo scorso 24 febbraio. Ad oggi dunque ci sono state diverse esclusioni, alcune hanno fatto rumore, altre meno, ma nessuna va considerata meno importante o significativa di un’altra.

Calcio, Formula 1 e Paralimpiadi

Lo scorso marzo, a nemmeno un mese dall’inizio del conflitto, la Haas (team americano che partecipa al campionato di Formula 1) ha comunicato il licenziamento di Nikita Mazepin, pilota “chiaramente” russo. Stracciato anche il contratto con lo sponsor Uralkali, ovvero l’azienda chimica di proprietà del padre di Mazepin, l’oligarca Dmitry, che ha sempre sostenuto economicamente il percorso del figlio e che viene ritenuto tra i finanziatori “molto vicini” a Putin. L’invasione in Ucraina ha fatto scattare anche l’esclusione degli atleti russi dalle Paralimpiadi invernali di Pechino, a dare l’annuncio è stato il Comitato Internazionale (IPC). Fuori anche i bielorussi, ritenuti fiancheggiatori, che in totale sono circa una settantina.

La guerra blocca lo sport, la Russia è fuori da tutto

Il numero uno dell’IPC, Andrew Parsons, ha motivato così la decisione: “Siamo dispiaciuti, ma i vostri governi hanno violato la tregua olimpica”. Lo stesso Parsons, nel suo discorso di inaugurazione, si è detto “inorridito dall’invasione”, pronunciando queste parole di fronte a Xi Jinping, il presidente cinese che ha assunto nei confronti dell’invasione una posizione tesa a mantenere i buoni rapporti con la Russia senza esporsi. Penalizzato anche il calcio russo da Uefa e Fifa con l’esclusione della Nazionale e di tutti i club dalle competizioni europee, nonché dal Mondiale in Qatar che si disputerà il prossimo novembre.

Niente Wimbledon per russi e bielorussi

Parlavamo in precedenza di notizie che fanno rumore, e per fare rumore – in ambito sportivo – servono i campioni (anche questo totalmente assurdo, se pensiamo sempre che lo sport dovrebbe unire e non dividere). E allora, quasi inaspettatamente, si discute di tennis in tutto il mondo. Se non altro per le esclusioni ormai certe di russi e bielorussi da Wimbledon 2022, il torneo più prestigioso al mondo che inizierà il 27 giugno. L’ufficialità è arrivata da qualche settimana attraverso un comunicato dell’All England Club, tra gli uomini sono cinque i top 100 non ammessi: oltre al numero due del ranking Daniil Medvedev, il numero 8 Andrej Rublev, Karen Khachanov, Aslan Karatsev e il bielorusso Ilya Ivashka. In campo femminile, invece, sono 11, tra cui la semifinalista della scorsa stagione Aryna Sabalenka (4 del ranking), Anastasia Pavlyuchenkova, Victoria Azarenka, Daria Kasaktina. Una follia autorizzata.

Subito dopo questa decisione, l’Atp si è fatta sentire con lucidità e concetti degni di nota: “Condanniamo fortemente la riprovevole invasione dell’Ucraina da parte della Russia e siamo solidali con i milioni di innocenti colpiti dalla guerra in corso. Il nostro sport è orgoglioso di operare secondo principi fondamentali di equità e merito, in cui i giocatori competono individualmente per guadagnarsi un posto nei tornei basati sugli Atp Rankings. Riteniamo che la decisione unilaterale di Wimboledon e LTA di escludere i giocatori di Russia e Bielorussia dal torneo britannico di quest’anno sull’erba è ingiusto e ha il potere di creare un precedente dannoso per il gioco. La discriminazione basata sulla nazionalità costituisce altresì una violazione del nostro accordo con Wimbledon che afferma che l’ingresso dei giocatori si basa esclusivamente sulle classifiche Atp. Qualsiasi linea di condotta in risposta a questa decisione sarà ora valutata in consultazione con il nostro Consiglio e i consigli dei membri. È importante sottolineare che i giocatori provenienti dalla Russia e dalla Bielorussia continueranno a essere autorizzati a competere agli eventi Atp sotto una bandiera neutra, una posizione che è stata finora condivisa dal tennis professionistico. Parallelamente, continueremo il nostro sostegno umanitario congiunto all’Ucraina nell’ambito di Tennis Plays for Peace“. 

La guerra blocca lo sport, la Russia è fuori da tutto

Era già successo che i tennisti boicottassero l’All England Club, nel 1973 infatti ottantuno giocatori non presero parte al torneo di Wimbledon per solidarietà nei confronti di Nikola Pilic. L’atleta jugoslavo era stato accusato di essersi rifiutato di rappresentare la sua federazione in Coppa Davis. Pilic avrebbe dovuto gareggiare contro la Nuova Zelanda in un match di Davis, ma si era iscritto ad un torneo a Las Vegas, motivo per cui la sua federazione scelse di sospenderlo per nove mesi dai match di Davis e dai tornei del Grande Slam. Decisero di giocare invece Jimmy Connors e Ilie Nastase; quell’anno il torneo lo vinse il ceco Jan Kodes, che in finale sconfisse in tre set il tennista russo Alex Metreveli.

Un precedente su tutti

L’ultimo “embargo” sportivo a un paese, che almeno nello sport conta come Europa, fu quello della Jugoslavia all’inizio delle guerre balcaniche, nel 1992. L’anno precedente, con le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia, in Europa si era tornati infatti a combattere per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma se l’indipendenza della Slovenia non superò i dieci giorni di combattimenti e perdite tutto sommato limitate, quelle croate e bosniache furono guerre ben più lunghe e sanguinose. Dall’estate del 1992 in poi, i combattimenti e le operazioni di pulizia etnica nell’ex Jugoslavia rasero al suolo interi paesi, provocarono tra i 130 e i 150mila morti, civili compresi, e quasi quattro milioni di profughi. In seguito al primo anno di combattimenti, con la risoluzione 757 del 30 maggio 1992, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite votò l’embargo a quel che rimaneva della Jugoslavia, ovvero le attuali Serbia e Montenegro.

Vennero vietate esportazioni e importazioni, così come non furono più permessi trasferimenti di fondi, collaborazioni scientifiche, tecniche e culturali; ai voli nazionali venne vietato l’atterraggio, il decollo e il sorvolo di paesi esteri, e fra le altre cose la Jugoslavia venne estromessa dalle principali competizioni sportive internazionali. La risoluzione venne recepita dai vari organi sportivi e di conseguenza il paese fu escluso dal principale evento previsto quell’anno, le Olimpiadi estive di Barcellona. Alcuni atleti jugoslavi poterono partecipare ai Giochi olimpici in Spagna, ma soltanto sotto la bandiera olimpica. Nel medagliere di quell’edizione la Jugoslavia non c’è, e le cinque medaglie vinte dai suoi atleti rimangono tuttora elencate sotto la dicitura “Partecipanti olimpici indipendenti”. Quando si ricorda l’embargo sportivo alla Jugoslavia, i rammarichi più grandi riguardano però il calcio. Lo sport più popolare della regione aveva scandito le fasi della guerra ancora prima del suo inizio, a partire dalla famosa partita di campionato tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado del 13 maggio 1990.

La guerra blocca lo sport, la Russia è fuori da tutto

Quel giorno i gravi scontri tra croati e serbi dentro e fuori dallo stadio Maksimir di Zagabria furono un’anticipazione di quello che sarebbe successo a breve. Nel resto dell’ex Jugoslavia, l’embargo sportivo ebbe l’effetto di svuotare le squadre di calcio di tutti i loro talenti. Per non rimanere confinati in campionati esclusi dalle coppe continentali o di piccole dimensioni, in breve tempo i più bravi andarono a giocare nei maggiori campionati d’Europa, facendo per anni la fortuna di tanti grandi club. Per le vecchie squadre jugoslave, come la Stella Rossa, fu invece l’inizio di un lungo declino. Andò meglio soltanto ai croati, che si ritrovarono nella loro nuova nazionale e nel 1998 raggiunsero uno storico terzo posto ai mondiali in Francia.

Nella speranza dunque che il conflitto possa finire al più presto, ci auguriamo pure che alcune decisioni così folli e ingiuste vengano ritrattate in breve tempo. La storia dovrebbe insegnare, non sempre lo ha fatto (anzi, quasi mai) e purtroppo ce ne accorgiamo tutti i giorni.

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La storia al contrario

Il terrorismo israeliano e lo “spazio vitale” nazional-sionista. Nell’articolo principale Alessandro Di Battista sottolinea come sia «triste constatare quanto i discendenti delle vittime dell’Olocausto stiano, giorno dopo giorno, assomigliando sempre più ai peggiori carnefici della Storia». Greta Cristini analizza geopoliticamente i possibili scenari, mentre Luca Steinmann e Valerio Nicolosi ci raccontano la vita in Libano e in Cisgiordania con i loro reportage. All’interno Line-up, Un Podcast per capello, Ultima fila e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Alessandro De Dilectis, Riccardo Cotumaccio, Marta Zelioli e Cesare Paris.

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