L’opinione logora chi non ce l’ha

Che poi il criterio è molto semplice.

Quando un mestiere lo sai spiegare in due parole, esiste. Quando ti accorgi che, pur sfoggiando tutto il vocabolario che t’appartiene, non riesci proprio a farlo comprendere al tuo interlocutore, e beh allora devi iniziare a farti qualche domanda. Ti rimbalza in faccia il suo sguardo perso, l’espressione di chi s’è appena sentito mitragliare lo sterno da sostantivi del calibro di account, senior, ceo, chief, e non ci ha capito niente. Che se potesse gridarlo al mondo lo farebbe “SANTODIOCHECAZZODIMESTIEREFAI?”. Ma è un tuo amico, e probabilmente col tempo si è rassegnato al fatto che tu un tornio, una penna, un mouse, uno scalpello tra le mani non lo prenderai mai. Sei dipendente a tempo indeterminato della pigrizia e questo mondo fa per te, amico, vai e conquistalo. Quindi l’interlocutore lascia correre, e tu credi che con la sua indifferenza abbia benedetto il tuo mestiere, l’abbia vestito di un codice Ateco che in realtà non esiste. E decidi di compierlo a vita, quel mestiere, perché altri come il tuo interlocutore hanno preferito non domandare, non interrogarti, lasciandoti così nel limbo dell’incomprensione che, approssimata per eccesso, t’ha fatto sostenere “Sì, anche io so fare qualcosa”.

Capostipite di un simile misunderstanding è l’opinionista televisivo. Questa figura a metà tra il saggio e il cazzaro che non ha una competenza precisa da sfoggiare. Egli si ciba di Focus e di Internazionale, del Corriere dei Piccoli e di Giochi Per il Mio Computer, regalandosi il privilegio di una visione panoramica di tutto e tutti (i test attitudinali parlano di cultura generale, i ricettari sintetizzano con Q.B), e una patente per poter dire la propria. Badate bene, non stiamo parlando di giornalisti, virologi, ex generali delle forze armate (che poi sarebbero i new virologi). No, no. Parliamo proprio dell’uomo affascinante, o della donna intrigante che, gamba accavallata e acconciatura gravitazionale, s’addentra nel tema di puntata con l’audacia del proprio punto di vista. E si diletta con inedita proprietà di linguaggio a commentare il terzo posto a Sanremo, la strage di Bucha, gli anni di piombo, l’arroganza di Djokovic, il folklore dei no vax e quello degli abitanti di un paesino dell’Irpinia in cui da centocinquant’anni si onora il caciocavallo impiccato. L’opinionista sa tutto. Anzi sa poco di tutto. Ma lo sa bene. Lo racchiude in una trentina di secondi a intervento, perché nessuno possa tacciarlo di lungaggine o di brevità e quasi sempre chiude la frase con una provocazione in levare, surclassata dal boato circostante. E la apre con “io stasera ho sentito dire tante cose, ma non s’è parlato di un punto fondamentale”. E il punto fondamentale ce l’ha lui, che si tratti di Ballando con le Stelle o Carta Bianca. Si è portato appresso il punto fondamentale e non vede l’ora di regalarlo al bancone macelleria del piccolo schermo, perché lo si possa illuminare e offrire un tot al chilo ai clienti in fila (vedi alla voce telespettatori distratti) che recependo poco e niente del suo discorso vi si appiglieranno, orfani di parole, con un lapidario “c’ha ragione”, catapultandolo nell’Olimpo dell’ovvio. È ovvio che Putin ci ha rovinato il morale improvvisando una guerra dopo un’altra specie di guerra. È ovvio che tra Morgan e Bugo lo stronzo è quello che ha provocato e il poveraccio è quello che ha subito. È tutto estremamente ovvio. E l’ovvio è il pane quotidiano dell’opinionista che non vuole mettersi contro nessuno e conosce strade, anzi scorciatoie dialettiche, che pur contrastando col pensiero di chi lo ascolta, lo pongono sul piano di un accordo con lui. E si guadagna gli applausi, i bravo, e gli endorsement domestici di chi vorrebbe tanto stringergli la mano perché M’Ha Tolto Le Parola Di Bocca.

L'opinione logora chi non ce l'ha

Per carità di dio. Tutto questo è lodevole. Ognuno è libero di esprimere ciò che pensa. Tanto più se a quel pensiero corrisponde un numero di partita iva. Prego, accomodatevi. Qualsiasi manuale di autostima, di leadership, a pagina uno ci ricorda quanto affermarsi con le proprie parole sia il primo passo per conquistare una sala riunioni e chi ne fa le veci. “Imponiti sempre con le tue idee” titolano i primi capitoli di questi manuali d’autodistruzione che spesso e volentieri profumano di supercazzola dall’inizio alla fine, e si concludono con il consiglio più corto e deleterio della storia: Never Give Up.

La televisione, però, non è una sala riunioni che affaccia su Gae Aulenti Square. È qualcosa di più.

È un ciondolo in perenne oscillazione che, a lungo andare, ipnotizza e se ne fotte di dividere il bene dal male, anzi fomenta la rissa tra i due perché si arrivi con disinvoltura alla pubblicità. E quasi sempre al ritorno in studio bene e male si abbracciano, bagnati da una pace improvvisa e dalla suggestione che, sì dai, in fondo ci sono i presupposti per fatturare anche oggi. Perché il diritto a dire la propria in tv autorizza a fatturare. Ma tutto, proprio tutto, su questo sputo di pianeta comincerebbe a trovare un senso se ad ogni diritto corrispondesse un dovere. Per carità, la libertà di esprimersi è sacrosanta. Ma mai quanto la necessità di tacere. E chi decide quando, se e come parlare? Io? Non credo. Voi che leggete? Dubito. Il conduttore di talk? Raramente. Forse qualcuno della produzione che valuta la possibilità di lasciare che tizio intervenga a discapito di caio o di sempronio per il bene dello show. In verità a decretare un vincitore nell’arena del pressappochismo è quasi sempre la collettività (ma quanto è bello questo termine che ci spoglia di ogni colpa). Siamo tutti noi, a frustate di hashtag, di auditel, a decretare il ritorno di quell’opinionista, a far sì che si ripresenti la prossima settimana. E la prossima ancora. E poi la prossima. Finché un altro, non spodesti il suo trono, si fotta lo scettro-microfono di cui s’è servito finora, e inizi a blaterare a modo suo su argomenti simili o radicalmente opposti.

L'opinione logora chi non ce l'ha

Per evitare che questa rappresaglia dia i suoi frutti e la precarietà si faccia largo tra le sensazioni che proprio non aveva messo in conto, l’opinionista originario deve traslare il suo potere contrattuale verso il web. E lì, nell’impero di Zuckerberg che la sua parola ha la necessità di raccattare seguaci. È lì che, inaugurando una campagna bellica all’ultimo mi piace, si guadagna il passepartout per gli altri mezzi. È lì che, senza filtri (ahah), senza remore, senza alcun freno inibitorio può dire tutto, condensarlo in una storia di 30 secondi o in un post che si fregia dell’introduzione “POST LUNGO” come a dire vi avverto, sto per tenervi incollati allo schermo per più di due minuti e non sono ammessi reclami postumi. Trenta secondi o 3 minuti il punto è sempre quello. La sua, meravigliosa, abusatissima opinione. Ma è sempre lì, nel web, che la sua opinione deve confrontarsi con dieci, mille, centomila opinioni diverse dalla sua, dando vita ad una sorta di Big Bang quotidiano del tutto ingestibile, in cui anche l’ultimo dei cretini, dall’alto della sua seconda elementare abbondante, può permettersi di sparare a zero su qualsiasi cosa, annientando in pochi secondi un premio Nobel solo perché possiede decibel o tasti in maiuscolo assai più convincenti.

E allora, quasi sempre, per l’opinionista il web è soltanto un’appendice spicciola grazie alla quale ricordare ai seguaci che “stasera sarò ospite a Piazza Pulita per parlare di Nato e pastiera napoletana”. Meglio limitarsi a una vetrina. In fin dei conti è davanti alla telecamera il suo posto ideale, è al cospetto di una regia frenetica che stacca sul suo bel primo piano che si sente a suo agio e rende la sua opinione immune da critiche. Non è un caso che gli aspiranti dittatori utilizzino la rete, ma i dittatori navigati continuino ad apparire in tv. Professionisti del non contraddittorio, in barba a Voltaire. Si, se non sbaglio era Voltaire. Perdonatemi ma la pigrizia allegata all’orario in cui questo articolo viene concepito, vince clamorosamente sulla serietà di controllare su Google. Quindi facciamo che era lui. Insomma Voltaire diceva “Non la condivido.” Si riferiva all’opinione altrui. “Ma darei la vita per difenderla”. Bravo il cretino, saresti un pessimo opinionista, da una botta e via, con la data di scadenza tatuata sulla schiena. Forse ti converrebbe informarti sulla disponibilità dell’altro a fare lo stesso con la tua di opinione. E, fidati, visti i tempi, puoi toglierti dalla testa che intenda seguirti alla lettera. Magari prendi un tipo zen, uno che ci crede davvero a questo baratto lessical-masochistico, insomma un ex cattolico praticante, uno che ha votato Rifondazione per una vita ed è rimasto deluso sia dall’infallibilità del Papa che da quella di Bertinotti. Ma se non trovi un tipo del genere, che tu sia Voltaire o l’ultima ruota del carro, beh nessuno proprio nessuno sarebbe disposto a dare la vita per difendere la tua opinione. Al di là di questo, è una frase ad affetto che vale la pena rispolverare durante una convention carente di ritmo, o in un monologo teatrale dedicato alla guerra, con l’auspicio infantile che il dittatore di turno sia in platea e dica sì, cristo santo, mi ha convinto, io non la penso come lo stronzo che mi appresto ad invadere però darei la vita per difendere quel pensiero, quindi Generale torni indietro con la truppa, a sto giro non se ne fa niente.

L'opinione logora chi non ce l'ha

Oggi Voltaire (stiamo sempre dando per scontato che né a me né a voi venga il desiderio di andare a controllare su Google se la citazione è sua) probabilmente non farebbe l’opinionista. Non avrebbe il polso per sostenere la clamorosa assenza di un confronto effettivo. Tutt’al più dirigerebbe un’emittente e si divertirebbe a codificare il suo aforisma in “Non condivido la tua opinione ma pagherei un gettone di presenza per sentirtela pronunciare in diretta.” Un gettone di presenza, che comunque è più accettabile della morte. E in un certo senso ti tiene a libro paga. E in questo suo manifesto democratico troverebbe un sacco di esseri umani pronti a seguirlo, fonderebbe un partito di gente che pensa, parla e si confronta con altra gente che pensa e parla senza arrivare a un beneamato niente. Perché, vi prego di farci caso, nei salotti in HD due opinioni completamente diverse vengono applaudite, nel giro di pochi minuti, dallo stesso pubblico. E quasi si annullano come meno per meno che fa più. Per cui se è vero che la matematica non è un’opinione, probabilmente l’opinione è più matematica che mai. Cioè, le stesse persone che un minuto e mezzo fa si spellavano le mani per l’imbecille che sosteneva la nocività del vino durante i pasti, adesso approvano con un applauso altrettanto vigoroso l’affermazione di un altro opinionista secondo cui il vino durante i pasti è una manna dal cielo per la nostra salute. Così, senza nemmeno vergognarsi d’aver rinnegato la propria sensibilità, senza nemmeno un alibi travestito da stacco pubblicitario.

E allora forse è quello il segreto di un opinionista che si rispetti. Trovarsi un pubblico, anzi una collettività (che parola meravigliosa, scevra da ogni senso di colpa) alla sua altezza, che non si chieda troppo. Anzi che si chieda e non si risponda, per evitare di scollarsi con le terga dal posto che l’assistente di studio gli ha attribuito e andarsene a casa scontento. Sostenere un’opinione e il suo esatto contrario dà automaticamente accesso al club delle persone felici. E sarà sempre troppo tardi quando tutti noi ce ne accorgeremo.

Alla fine ho cercato su Google. E dopo anni si è scoperto che Voltaire quella cosa dell’opinione non l’ha mai detta. In compenso era scritta in un libro di inizio ‘900, intitolato “Friends of Voltaire”. Un volumetto architettato da scrittori/ammiratori dello stesso.

Il pubblico, ancora una volta, il pubblico.

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