Paul era meglio di John, alla fine di tutto

Se sfogliate il catalogo di Disney+ scoprirete “The Beatles: Get Back”, miniserie diretta da Peter Jackson divisa in tre episodi da due ore ciascuno. Le reazioni a caldo potrebbero essere molte e quasi tutte prevedibili: “Un altro prodotto sui Beatles!? Ma cos’hanno da dire ancora?”; “Diavolo, Jackson non sa più cosa raccontare dopo i dodici Oscar vinti”; “Ma Disney+ non ha solo i cartoni animati?” etc. Partiamo dalla fine: da quando Disney ha assorbito Marvel e universo Star Wars il suo archivio ha letteralmente spiccato il volo quindi no, trovarci una docuserie è tutt’altro che improbabile. Il regista neozelandese, immortale grazie alla trilogia de Il Signore degli anelli, è tutt’altro che bollito e anzi – dopo They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani, 2018 – torna al formato “documentario” per esprimersi al meglio. Alla prima domanda, invece, è facile rispondere: ci sarà sempre qualcos’altro da raccontare sui Beatles.

La storia nasce qui

Nel gennaio 1969 una troupe filma il gruppo durante le prove di quello che sarebbe dovuto essere uno show televisivo. Il risultato sono oltre 57 ore di girato: non solo session improvvisate ma anche dialoghi e momenti di studio, silenzi e tensioni alternati a momenti di grande intesa in un contesto di progressivo allontanamento. Il materiale rimane a lungo chiuso in cassaforte fino al 2016, anno in cui Jackson si assume la responsabilità di riportare – e soprattutto montare – quanto di marcio stesse covando all’interno della band durante il suo ultimo anno di vita. John Lennon e Ringo Starr hanno 29 anni, Paul McCartney 27 e George Harrison 26; dopo aver conquistato il mondo volano in India per ritrovarsi, mollano i concerti dal vivo e, al tramonto del ’68, ponderano l’idea di un’esibizione televisiva senza precedenti.

Londra, studi Twickenham. Uno staff di almeno trenta persone tra produttori, cameramen e tecnici circonda le quattro star chiamate a incidere quattordici brani in meno di un mese. Sono i primi dell’anno e tutti, dal primo all’ultimo componente di quest’avventura, devono riavviare i rispettivi ritmi lavorativi evitando di urtare le sensibilità altrui. L’appuntamento è al mattino, ognuno si presenta in studio a modo suo: passo svelto per John, incerto per George, leggero per Ringo e distratto per John. Quest’ultimo è accompagnato da Yoko Ono. Sarà sempre presente.

Nel prendere confidenza con gli strumenti i quattro lavorano in solitaria, si scambiano qualche sguardo con dialoghi ai minimi storici. Non c’è acredine ma voglia di studiare il terreno di gioco prima di fare squadra. L’aria è pesante soprattutto per un motivo: l’obiettivo di questo show non ha struttura né luogo. È uno show televisivo o un concerto? Si tiene a Londra o in Africa? È a pubblico chiuso o ingresso gratuito? Tra tutti, a interrogarsi cercando di coinvolgere il resto dei compagni, è solo un componente della band: Paul McCartney. L’unico Beatle focalizzato sul lavoro da fare e quindi, date le circostanze, il più fico di tutti.

Ma cosa significa Paul è meglio di John?

Nessun artista, persino il più forte di sempre, saprebbe indicare il migliore in termini di carisma e qualità tecnica. Stando al momento “Get Back”, però, è semplice interpretare il rapporto tra i due amici fraterni, distanti più che mai sul piano umano e artistico. Se Ringo si limita ad accompagnare il genio dei due con l’estrema capacità di riconoscere subito lo stile adatto al pezzo di turno, George soffre l’autorità di Paul e la passività di John e, a pochi giorni dalla prima giornata di lavoro, sceglie di lasciare il gruppo sbalordendo gli addetti ai lavori. Non Paul e John che, registrati di nascosto nella mensa, discutono dei loro ruoli e del destino del gruppo. Da questo dialogo – forse il primo motivo per correre a casa e accendere la smart tv – risulta chiaro il problema dei Beatles: la coppia LennonMcCartney fa acqua da tutte le parti.

Servono due incontri nella villa di George per convincere il più giovane del gruppo a tornare in pista e nel frattempo i lavori rallentano a dismisura. Mentre Ringo sonnecchia e John si lascia accarezzare i capelli da Yoko c’è un solo Beatle capace di buttare giù pezzi come Get Back e Let It Be: Paul McCartney, appunto. Non solo Paul sperimenta e scrive ma stuzzica e sprona gli altri tre. “I Beatles sono depressi da almeno un anno. Da quando è venuto a mancare Epstein non è più la stessa cosa. Siamo diventati pessimisti, ci manca la disciplina”. Lo dice arreso, come fosse un monito già espresso più volte senza particolari reazioni esterne. Paul rallenta o velocizza il ritmo, riprende o esalta John, dà il tempo a Ringo e ispira George.

I produttori e lo staff tecnico scelgono lui come interlocutore artistico e organizzativo e solo su sua provocatoria indicazione corrono da John per consigli estetici su scenografie e metodi avanguardisti di intrattenimento televisivo: “Chiedete a John, è lui il vero artista qui”. Una volta incassato l’addio momentaneo di George, Paul cade in un dolorosissimo silenzio di alcuni minuti. La camera riprende i suoi occhi: sono colmi di delusione. È il momento di coinvolgimento emotivo più alto dell’intera docuserie. Bisogna cambiare teatro, quegli studi nella periferia londinese gettano oscurità sul lavoro dei quattro musicisti.

Si va al centro: studi Apple

Yoko non è l’unica compagna presente, anche Linda Eastman – fotografa e futura moglie di Paul – fa visita ai ragazzi sul set. Al contrario di Yoko, ossessivamente legata a John, Linda scatta alcune foto al gruppo e dialoga con tutti i presenti. Entrambe le compagne, a modo loro, risulteranno decisive nelle carriere da solisti di John (Plastic Ono Band) e Paul (Wings). Una frase di Paul, apparentemente innocente, risuona oggi emblematica: “Farebbe ridere se tra cinquant’anni spiegassero la nostra rottura perché Yoko s’è seduta su un amplificatore”. Quando McCartney e Lennon devono incidere un pezzo c’è lei a mezzo metro di distanza. “Scrivevamo molto di più prima”, confessa Paul incalzato da George Martin, il “quinto Beatle”. La chimica della coppia autorale più potente di sempre è compressa, motivo per cui – tra il 69 e il 70 – la band inglese entra in un tunnel dal quale non sarebbe mai più scampata.

“Get Back” regala allo spettatore la visione più cruda del loro tramonto e allo stesso tempo la più umana

I Beatles avrebbero potuto resistere e cominciare un nuovo corso insieme? Non lo sapremo mai. Al contrario possiamo indicare chi, fino all’ultimo, ha tentato in tutti i modi di salvare la baracca. Paul l’autoritario e l’antipatico, il bulletto del gruppo che corregge gli altri e finisce per diventare quello insensibile è stato, con tutti i suoi difetti, l’ultimo a dedicare tutte le sue attenzioni e i suoi sforzi al presente e al futuro del gruppo che ha fondato e nel quale è diventato uomo. Uomo alla guida di tre ragazzi, leader al cospetto di tre mestieranti: in “Get BackMcCartney afferra il timone di una nave in tempesta cercando di svegliare i dormienti marinai. Ringo dimostra apatia ma probabilmente è il più saggio di tutti, George tiene da parte le perplessità e alterna momenti di lavoro quotidiano ad altri di genio assoluto (vedi la composizione di Something). John Lennon non è invisibile, anzi è letteralmente l’animatore della situazione. La sua leggerezza sfocia pericolosamente nel campo della superficialità: occhiolini alle camere, postura nascosta tra le casse e gli strumenti e testa tra le nuvole. Ironizza sui Rolling Stones, scimmiotta Let It Be, distorce il suono della chitarra e provoca Paul se richiamato all’ordine. La composizione musicale non sembra essere la sua priorità: c’è prima lo show. Il concerto si tiene ed è il più iconico di sempre: l’ultima esibizione dal vivo dei Beatles è storia contemporanea oltre che musicale eppure non basta a evitare il naufragio. Coerentemente con quanto raccontato è proprio Paul, pochi mesi più tardi, a “rassegnare le dimissioni” da Beatle costringendo gli altri a una dura battaglia legale e artistica durata anni. Nei primissimi album da solisti Lennon e McCartney si lanciano frecciate pubbliche degne di un articolo a parte (la più dura, How Do You Sleep di Lennon) senza mai ritrovarsi davvero, fino all’anno dei quattro colpi di pistola che colpiscono John alle spalle: siamo nel 1980.

Se dei quattro talenti di Liverpool s’è davvero detto tutto, “Get Back” regala allo spettatore la visione più cruda del loro tramonto e allo stesso tempo la più umana. Ragazzi e non macchine da soldi, amici in difficoltà e non artisti incattiviti: Peter Jackson dipinge un quadro estremamente realistico di come un gruppo, perfino il più amato di sempre, possa dissolversi per un paio di non detti. L’ingenuità e la testardaggine della giovinezza a un piccolissimo passo dall’età adulta: potrebbe essere questo il sottotitolo dello straordinario lavoro disponibile ancor oggi su Disney+. Paul e Ringo, gli ultimi due Beatles viventi, hanno accompagnato Jackson nella fase di post produzione, step by step. Immaginate le risate e i rimpianti.

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Nativi indesiderati

Nell’ultimo decennio il Venezuela ha vissuto una metamorfosi sostanziale: nel mezzo le vite di chi fugge, chi torna e chi non se n’è mai andato. Ad affrontare il tema è Martina Martelloni, collaboratrice de il Millimetro, che direttamente sul posto ha raccontato la situazione degli indigeni, anche attraverso un eccezionale reportage fotografico. Alessandro Di Battista analizza le contraddizioni del “libero e democratico” Occidente nel rapportarsi con le operazioni militari di Israele, le sanzioni che colpiscono solo la Russia e le solite immagini che i TG nazionali nascondono. All’interno L’angolo del solipsista, Tutt’altra politica, Line-up, Un Podcast per capello e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Giacomo Ciarrapico, Paolo Di Falco, Alessandro De Dilectis, Riccardo Cotumaccio e Cesare Paris. Si aggiunge inoltre Ultima fila di Marta Zelioli. Copertina a cura de “I Buoni Motivi”.

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