Stipendi, se il manager batte l’operaio 3000 a 1

Che rapporto deve esserci tra lo stipendio di un manager e quello di un dipendente della stessa azienda? Quali elementi contribuiscono a decidere questa proporzione? Per quanto tempo un addetto deve lavorare per accumulare la stessa quantità di denaro che i vertici della stessa azienda guadagnano in un anno? Domande da un milione di dollari, per restare in tema di vil denaro. La risposta non esiste. O meglio: la suggerisce il buon senso, la indicano gli accordi economici, ma non c’è un criterio che stabilisca il rapporto tra stipendio dei primi nomi nell’organigramma aziendale e retribuzioni delle ultime ruote del carro. Non abbiamo a disposizione un algoritmo, una regola, una formula scientifica o un’altra diavoleria del genere.

Adriano Olivetti era solito affermare che “nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo”. Dieci volte. E se ad affermarlo non era un sindacalista, che di mestiere tutela, rappresenta e difende gli operai, ma addirittura uno dei più illuminati e moderni imprenditori che il nostro Paese abbia mai avuto, allora c’è davvero da credergli. Ma erano altri tempi, e sappiamo tutti che oggi non è così. E forse non lo è mai stato.

La nostra Società

La questione genera diatribe tra addetti ai lavori ma soprattutto provoca un cortocircuito abbastanza bizzarro e prevedibile: dal momento che gli operai sono potenzialmente gli acquirenti dei generi che gli imprenditori producono, sarebbe autolesionistico da parte loro non metterli nelle condizioni di spendere. Vorrebbe dire privarsi di una fetta importante di potenziali acquirenti dei propri prodotti. Insomma, scritto in soldoni: ai “padroni” conviene offrire un salario dignitoso ai propri dipendenti, perché un buon potere d’acquisto consente loro di acquistare gli stessi beni prodotti dall’azienda. Un concetto che un altro imprenditore sui generis, mi riferisco a Marchionne, aveva brillantemente sintetizzato in questo modo: “Qualche emiro che compra una Ferrari lo troverò sempre. Ma se il ceto medio finisce in miseria, chi mi comprerà le Panda?”. Parole sante! Anche se nel periodo d’oro della carriera del top manager abruzzese ai vertici della Fiat, qualcuno ha calcolato che ad un operaio impegnato nello stabilimento torinese sarebbero stati necessari 1.422 anni di lavoro (1.422!) per guadagnare lo stipendio annuale di Marchionne, che nel 2015 si è portato a casa 62,5 milioni di euro.

Ad onor del vero è bene sottolineare che bisogna considerare tantissime cose: i ruoli, l’esperienza, il contesto aziendale, i ‘benefit’ a disposizione dei vertici dell’azienda, gli incentivi, come le stock option. Ma fa specie pensare che un Amministratore delegato valga come 1.000, 1.500, 2.000 operai. E fa senso pensare che un lavoratore che voglia raggiungere il compenso annuo dell’Ad della propria azienda debba essere costretto a lavorare da oggi fino al 3445… o giù di lì. Recentemente la catena di supermercati statunitense Kroger ha sollevato un vespaio di polemiche per aver proposto di riconoscere al proprio amministratore delegato un compenso con un rapporto di 909 a 1 rispetto a quello di un suo dipendente. 909 mesi di lavoro vuol dire 75 anni, un’eternità. Anche in Italia la questione delle retribuzioni torna periodicamente di moda, tra liquidazioni stratosferiche, questione salariale, stipendio minimo e sproporzione tra stipendi. In particolare il rapporto di forza (salariale) tra i vertici delle aziende e la ‘manovalanza’ ha sempre sollevato discussioni e non è mai riuscito a mettere d’accordo gli addetti ai lavori, divisi tra visioni liberiste, slanci di socialdemocrazia o semplicemente enunciati di buon senso.

Compensi e disparità

Ogni tanto spunta sui giornali la notizia di una liquidazione a molti zeri assegnata a manager (o presunti tali) di aziende anche pubbliche, che non solo nel periodo in cui sono stati al vertice non hanno fatto compiere un salto di qualità all’azienda, ma l’hanno anche lasciata con i conti in rosso e nessuna prospettiva per gli anni a venire. E magari con lavoratori in apprensione per il proprio futuro, tra esuberi e ammortizzatori sociali. Nei giorni scorsi il Wall Street Journal ha pubblicato un’analisi davvero sorprendente: il 2021, che come sapete è stato caratterizzato dalla pandemia e da una crisi che oltre che sanitaria e sociale è stata anche economica, è stato un anno record per gli amministratori delegati delle maggiori aziende.

Il compenso più alto è Andy Jassy di Amazon, che ha guadagnato quasi 213 milioni, ovvero circa 6.500 volte in più del salario medio di un suo dipendente

Il loro compenso medio si è attestato di poco sopra i 14 milioni di dollari, in aumento rispetto ai 13,4 milioni dell’anno precedente, che già era stato archiviato come un anno record. Dai dati raccolti ed esaminati dal quotidiano finanziario americano risulta che la maggior parte degli amministratori delegati ha ottenuto un aumento di almeno l’11%, e per quasi un terzo dei Ceo l’aumento ha superato il 25%. Soddisfo subito la curiosità dei lettori e rispondo alla domanda più ovvia: quali sono i manager più pagati al mondo? Il top manager che nel 2021 a percepito il compenso più alto tra le società quotate nell’indice Standard & Poor’s 500 (il più importante indice azionario americano, contiene 500 titoli azionari di altrettante società quotate a New York, che rappresentano circa l’80% della capitalizzazione di mercato) è stato David Zaslav di Discovery (247 milioni), che ha guadagnato 3.000 volte in più degli 82.964 dollari di paga mediana per i suoi dipendenti, mentre nel 2018 era stato pagato “solo”1500 volte in più. Il secondo amministratore delegato che ha ricevuto il compenso più alto è Andy Jassy di Amazon, che ha guadagnato quasi 213 milioni, ovvero circa 6.500 volte in più del salario medio di un suo dipendente, pari a 32.855 dollari. Visto che parliamo di Amazon, permettetemi una piccola digressione, che però si inserisce perfettamente nel contesto di questo articolo, e un po’ di righe più sotto vedremo perché. I lavoratori di uno dei più grandi stabilimenti di Amazon a New York, con un voto ‘ufficiale’, hanno deciso di aderire in maggioranza a un sindacato.

È la prima volta che negli States i dipendenti di uno stabilimento Amazon decidono di sindacalizzarsi, dopo che per anni la scelta di far entrare le organizzazioni sindacali nell’azienda è stata osteggiata e bocciata con appositi referendum. Il caso Amazon, che forse avrebbe meritato maggiore spazio e un serio approfondimento nelle sezioni economiche di giornali e Tg, rappresenta un precedente importantissimo e da non sottovalutare per l’intero mondo del lavoro americano e per il futuro delle relazioni industriali nelle aziende. Al voto ha partecipato più della metà degli 8 mila dipendenti dello stabilimento, un sito strategico per il colosso di distribuzione perché è l’unico centro di smistamento di Amazon nella città di New York. La vittoria è stata di misura, con circa il 55% dei votanti a favore, ma è davvero importante anche perché Amazon, tra le aziende statunitensi con il maggior numeri di dipendenti, ha sempre remato contro l’adesione dei propri dipendenti al sindacato, anche ricorrendo a mezzi non proprio ortodossi, osteggiando con ogni mezzo i pochi temerari che hanno tentato di fare sindacato e boicottando ogni possibile iniziativa dei lavoratori, a partire dal semplice volantinaggio. Questo voto rimette tutto in discussione.

Parlano i ricchi

Chi ne fa una questione di giustizia sociale, ma principalmente per un tornaconto personale, è l’investitore multimiliardario americano Carl Icahn, il 26esimo uomo più ricco al modo secondo la rivista Forbes. Qual è la strategia di Icahn, definito un vero terremoto nello scenario economico statunitense:? L’investitore per anniha accumulato enormi partecipazioni nelle più grandi società, per poi chiedere ai vertici dell’azienda un radicale cambio di passo su molte faccende interne, come il compenso dei top manager. In questo modo, con una voce in capitolo sempre più crescente grazie ad una presenza ingombrante nell’azionariato aziendale, ha costretto i vertici di questi big della finanza a modificare diverse pratiche commerciali oramai consolidate, dando inevitabilmente più valore e spazio agli azionisti minori, e in alcuni casi contribuendo a miglioramenti nelle dinamiche aziendali, a vantaggio dei lavoratori.

Stipendi, se il manager batte l'operaio 3000 a 1

“È vero che siamo in un sistema fortemente capitalistico – ha scritto Icahn in una lettera indirizzata ai vertici della Kroger, dopo la proposta che vi ho illustrato in precedenza – ma è pur vero che ritengo semplicemente osceno che un amministratore delegato guadagni 900 volte quello che guadagnano i lavoratori, magari giocando a golf tutto il giorno”. Sarebbero davvero tante le aziende incluse nell’indice Standard & Poor’s 500 che hanno un divario imbarazzante nelle retribuzioni. Tra i brand più noti possiamo leggere Gap, Hilton, Nike, Coca-Cola, General Electric e Starbucks. Gli amministratori delegati di queste società sono stati pagati da 1.100 a 3.100 volte l’impiegato medio nel 2020, mentre il rapporto retributivo tra CEO e lavoratore per le società S&P 500 era mediamente di 299 a 1. Insomma, il problema c’è e non è di poco conto. Negli Stati Uniti se ne sono accorti da tempo: recentemente il presidente Joe Biden ha rilanciato una proposta molto cara ai democratici: l’introduzione di una tassa sui miliardari. Si tratta di una delle promesse elettorali più famose del successore di Barack Obama, e prevede l’introduzione della ‘billionaire minimum income tax’, ossia un’aliquota fiscale minima del 20% su tutte le famiglie americane che abbiano un patrimonio superiore ai 100 milioni di dollari. Parliamo di una minoranza davvero esigua di persone, ma forse più che il bottino finale in questo caso assume importanza il valore simbolico del provvedimento. La questione è stata affrontata anche in Italia. Anni fa il sindacato dei bancari della Cisl lanciò l’idea di un progetto di legge che prevedeva un tetto per la retribuzione fissa dei top manager dei gruppi bancari, pari a 294 mila euro annui (la stessa che era prevista dal DecretoSalva Italia” per i manager pubblici), oltre al rapporto di 1:1 per il salario variabile (come da indicazioni europee) e all’abolizione dei bonus relativi alle maxi liquidazioni. Il sindacato in quell’occasione aveva calcolato che per guadagnare lo stipendio annuale di un cassiere della sua banca l’amministratore delegato della stessa banca impiegava appena 3 giorni di lavoro, grazie a una retribuzione pari a oltre 10 mila euro al giorno. Ma politica e sindacato non sono gli unici ad opporsi a questa pratica dei compensi esorbitanti e sproporzionati.

In una recente assemblea degli azionisti di Apple solo il 64% dei votanti si è espresso a favore del maxi compenso dell’Amministratore delegato Tim Cook. Non è una notizia da sottovalutare, perché potrebbe confermare l’inizio di un nuovo corso nelle strategie aziendali a tutti i livelli, con lo sgretolamento di pratiche consolidate e strutturate che ad oggi costituivano la regola, una regola peraltro discutibile e controversa. Forse in Italia la possibilità di riuscire a rompere queste consuetudini radicate e consentire un nuovo corso nelle aziende più grandi ce l’ha proprio il sindacato. La partecipazione dei lavoratori nelle decisioni delle aziende è ancora una pratica poco diffusa, ma sicuramente la presenza di un presidio sindacale che dialoghi con la dirigenza e insieme ai vertici cerchi soluzioni in grado di sbrogliare le matasse, potrebbe evitare il ricorso a pratiche inaccettabili, aumentando la democrazia e la giustizia sociale nelle nostre aziende. Forse per i nostri lavoratori l’anno 3445 non è poi così lontano…

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Il prigioniero del secolo

La libertà di Assange, fondatore di WikiLeaks, è l’unica arma che abbiamo per contrastare chi sta costruendo passo dopo passo la Terza guerra mondiale. Ad affrontare il tema è Alessandro Di Battista, collaboratore de il Millimetro e tra i massimi esperti dell’argomento, oltre a essere protagonista di un fortunato tour teatrale incentrato sul giornalista australiano. Greta Cristini analizza geopoliticamente le origini dell’attentato terroristico islamista in Russia e i possibili scenari. All’interno anche L’angolo del solipsista, Vita da Cronista, Line-up, Pop Corn, Un Podcast per capello e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Giacomo Ciarrapico, Andrea Pamparana, Alessandro De Dilectis, Simone Spoladori, Riccardo Cotumaccio e Cesare Paris. Si aggiunge inoltre Tutt’altra politica di Paolo Di Falco. Copertina a cura de “I Buoni Motivi”.

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