Le nostre interviste, Galeffi

Quando senti la voce di Marco Cantagalli è impossibile perdersi alcune sfumature, simili a contraddizioni, che dicono molto del suo ultimo biennio. Su tutte il rimpianto di aver pubblicato Settebello, il suo secondo album, una settimana prima dello scoppio della pandemia; la nostalgia di non averlo promosso e quindi di non averlo sentito suo fino in fondo; la paura di aver perso il talento e la confidenza col palco. La vera voce di Marco, però, è quella di Galeffi: nome d’arte di un autore che dal 2017 si aggrappa alla musica come fosse la sua unica ancora di salvezza e che oggi, a poco tempo dalla pubblicazione del suo terzo lavoro, “Belvedere“, si lascia alle spalle la malinconia e converte quel dolore in arte. Un’esigenza simile a quella primordiale ma distante nel vissuto e nel percorso. Ne parliamo al telefono, alle porte del suo ciclo di serate dal vivo.

Le nostre interviste, Galeffi

Dove sei?

A Milano, ho promosso il tour. In settimana inizio l’allestimento e non vedo l’ora di partire. Ci aspettano cinque giorni di prove e il 5 dicembre inauguro il viaggio a Largo Venue, Roma. A gennaio Brescia, Torino, Cesena, Firenze.

Il tour è il vero protagonista del tuo 2022.

È così, sono quattro anni che non mi esibisco dal vivo. Sono lo Zaniolo della musica, partito giovanissimo e col botto ma tenuto in frigorifero per un biennio. Il secondo disco, quello della conferma, è uscito con la pandemia ma non abbiamo potuto promuoverlo a dovere. Riaffacciarmi sul mondo dei live mi emoziona, ho iniziato nei locali dodici anni fa puntando sul passaparola. Rispetto a tanti altri colleghi nati sul web io ho vissuto il processo opposto, fondato sui live come arma di promozione. Da quando abbiamo annunciato il tour stanno aumentando gli ascolti dei pezzi. Un risultato non scontato. Spotify è un contenitore essenziale per tutti noi ma ha svalutato l’acquisto fisico dei dischi (ne parla una bella serie su Netflix, The Playlist). La voglia di toccare con mano gli artisti pagando il ticket di un concerto prò è ancora viva ed è l’aspetto più bello del mio mestiere. Un po’ me la sto facendo sotto però, eh.

Ovvero?

Ne ho parlato con Niccolò Fabi, mio amico. Quando è tanto che non ti esibisci senti un po’ la pressione. Ma mi auguro sia tutto super naturale. Non mi sorprenderei se piangessi dalla commozione una volta tornato sul palco.

Chi ti sta accompagnando in questa avventura?

La mia famiglia. Luigi Winkler, mio amico e chitarrista della prima ora, suona tutte le chitarre anche se per la prima volta lo accompagno anch’io, alternandomi all’ukulele e al mio amico pianoforte. Mio fratello Matteo Cantagalli è ai synth, Fabio Grande – uno dei produttori – suona il basso e Andrea Palmeri la batteria. Siamo in cinque e lavoriamo da sempre insieme con Magellano concerti. Non vedo l’ora di farmi le furgonate. Sarà faticoso ma intenso. La maggior parte dei live si fanno al Nord, quindi…

Perché?

Più le città sono grandi più c’è disponibilità di club. Al Sud mi scontro con un problema di capienza: trovo club o troppo piccoli o troppo grandi per il numero di pubblico che porto.

Caparezza diceva: il secondo album è sempre più difficile. Il terzo?

Vale come il secondo, visto il buco nero della pandemia che ho vissuto. Settebello è su Spotify ma è come se non lo avessi vissuto. Il primo è stato il più facile, scrivevo per la mia ragazza e l’ho composto con i miei amici di sempre. Non sapevo sarebbe uscito, è stata una magia. Dopo il primo è cambiato tutto.

Come sei cambiato nello stile tra Scudetto e Belvedere?

Ho imparato di più il mestiere. All’inizio non sapevo fare molto, era istinto e basta. Oggi mi sento più completo, parlo alla pancia ma anche alla testa del pubblico. Ho sperimentato tanto, la critica ha apprezzato e anche molti colleghi che stimo. Mi emoziona.

I brani a cui sei più legato?

La prima e l’ultima sono per me le più importanti e accade in ogni mio album, tipo un serial killer che lascia la sua firma. Quindi scelgo “Un sogno” e “Malinconia mon amour“, al terzo posto metto “Dolcevita“. Nel comporla ho capito che ero ancora in grado di scrivere canzoni. È un pezzo in tre ottavi che cita anche grandi autori del passato come Dalla e Battisti. Cantautorato italiano misto a quello francese.

Quali sono i temi di Belvedere?

L’album nasce da una sofferenza legata alla pandemia, per me ancora oggi una ferita aperta. Quando ti vedi togliere, da un giorno all’altro, la passione della tua vita gli strascichi sono inevitabili. Ho cercato di dare il massimo comunque, nonostante il lockdown e la morte del mio cane, studiando e capendo dove volessi andare; trovando un’identità ancor più forte e cercando di cambiare le persone con cui collaboro. Mi sono fatto il culo, cercando di scoprire il bello anche quando fuori sembra tutto una merda.

Mi citi un autore a cui ti sei sempre ispirato?

Cesare Cremonini. La stampa ogni tanto ci accomuna e ci scherziamo su. Abbiamo timbri simili, specie su certe note. È l’artista più forte di tutti perché non ha mai regalato pezzi a nessuno e resta sempre sulla cresta dell’onda. È sopravvissuto alle mode e soprattutto ad alcune difficoltà di percorso, superando momenti complessi che hanno impreziosito poi la sua opera. Torna sempre tutto, dolore incluso.

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Sei un grande tifoso romanista e trovi sempre il modo di ricordarlo…

Ma faccio fatica ad accettare una tendenza attuale della tifoseria, quella di mettere in dubbio uno come José Mourinho. Le critiche arrivano perché la squadra gioca male ma la verità è che la Roma di oggi non è poi così distante da quella degli ultimi anni. Ma ricordiamo che, Napoli a parte, sono tutte e lì e abbiamo troppe defezioni a centrocampo. Aggiungo: Dybala è il nostro dieci e purtroppo lo abbiamo visto meno negli ultimi mesi. Negli undici la squadra è più debole dell’anno scorso. Abraham non ha ingranato, Spinazzola è involuto e Zaniolo manca in termini realizzativi. Questo però mi spinge a vedere con ottimismo la seconda parte di stagione, del resto peggio di così è difficile fare.

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